One Billion Rising: quando l’evento non è nazionale

One Billion Rising: Gwalior, Madhya Pradesh, India

One Billion Rising: Gwalior, Madhya Pradesh, India

Ieri si è svolto in tutto il mondo il flashmob internazionale One Billion Rising contro la violenza sulle donne. Partito da una chiamata di Eve Ensler, già nota per i Monologhi della Vagina e i vari V-day, ha coinvolto donne e uomini di tutto il pianeta: scopo della manifestazione era ovviamente non un semplice balletto da danzare sulle note di Break the chain ma un modo per sensibilizzare milioni di persone sul tema della violenza di genere. Trasversalità è stata la parola d’ordine ma anche la precisa decisione di non dare un colore politico ai vari eventi che si sono succeduti nel corso di questa spettacolare ventiquattr’ore in totale autogestione.

In una Italia sotto campagna elettorale, a livello mediatico, questa giornata è stata da una parte accolta con una “profonda” analisi, ossia è stata bollata e catalogata da subito come “una pagliacciata”, mentre da un’altra parte è stata vista come l’occasione ideale da strumentalizzare e dirottare per far emergere facce note e partiti politici che si sono fatti beffe della mancanza di colore politico della manifestazione e hanno cercato in tutti i modi di cavalcarla per trarne visibilità.

A livello non virtuale ma reale invece, migliaia di singole donne e in generale milioni di persone in tutto il pianeta si sono mobilitate autorganizzandosi per riuscire a far parte di questo avvenimento mondiale: ore di prove, incontri, condivisioni, discussioni, danze, si sono succeduti per giorni, talvolta per mesi, in preparazione all’evento finale.

Avendo messo a disposizione di chiunque ieri questo articolo del Huffington Post che muove delle critiche serissime e importanti all’OBR e avendolo visto condiviso e riassunto un po’ ovunque da donne bianchissime e nazionalizzate, mi sono posta anch’io il problema dell’internazionalità dell’evento e della sua presunta colonizzazione: se da una parte può essere vero che alcune donne congolesi o iraniane abbiano mosso delle critiche di neocolonialismo (mentre nei commenti all’articolo ci sono le smentite) e alcune si siano addirittura “sentite offese”, d’altra parte la localizzazione dell’OBR, l’autorganizzazione e l’autogestione hanno di fatto controbilanciato queste critiche. Cosa accade infatti quando una manifestazione non è nazionale ma internazionale?

Per farmi un’idea maggiore di come si sia svolto localmente l’avvenimento ho chiamato semplicemente al telefono Anna, una delle organizzatrici di One Billion Rising a Nuoro e le ho fatto qualche domanda.

Jo: Ciao Anna, raccontami un po’ com’è andata, come avete fatto ad organizzarvi, incontrarvi..

Anna: Ciao. Come ben sai Nuoro è una realtà piuttosto piccola, ci si conosce, si hanno amici in comune, ci si saluta, è andata nel modo più semplice possibile: con il passaparola. E poi da lì abbiamo cominciato a condividere l’evento sui nostri profili facebook e infine abbiamo creato la pagina. In pochissimo tempo abbiamo cominciato a vederci e provare, fino all’appuntamento finale.

Jo: Avevi già partecipato a manifestazioni nazionali, come Snoq il 13 febbraio 2011 ad esempio?

Anna: No, non avevo partecipato. Di OBR ci è piaciuto proprio il fatto che si potesse organizzare e partecipare dal basso, questa cosa ci ha veramente entusiasmato. Snoq c’era, o meglio c’erano le persone che ne fanno parte ma non sono mica venute come Snoq: sono venute come Paola, Manuela, Patrizia, come tutte le singole che hanno deciso di unirsi alla danza collettiva. Perfino alcune persone delle istituzioni mi hanno contattata per telefono dopo aver saputo la notizia del flashmob e io ho spiegato che per aderire bastava scendere in piazza e danzare come tutte noi.

Jo: A proposito di danza, oltre alla coreografia di Break the Chain ho notato con sorpresa anche la presenza di mamuthones e issohadores, maschere tradizionali del carnevale barbaricino che sta impazzando in questo periodo dell’anno.

Anna: Sì, queste maschere sono una presenza che abbiamo fortemente voluto poichè fanno parte della nostra identità, sono un elemento che ci contraddistingue. I mamuthones e gli issohadores per di più sono maschi e rappresentano profondamente, in maniera ancestrale, il maschile nella nostra tradizione: per questo motivo li abbiamo voluti “contaminare” e abbiamo deciso di volerli con noi.

Jo: A Nuoro mamuthones e issohadores, a Oristano invece simbolo della manifestazione la regina Eleonora d’Arborea e c’erano perfino i tenores. Balli sardi tradizionali e flashmob globalizzati hanno accompagnato i vari appuntamenti del OBR nostrano: com’è potuto accadere?

Anna: OBR era non solo autorganizzato dalle persone del posto ma si declinava a seconda della località, della tradizione, della cultura in cui l’evento si svolgeva. La coreografia era solo un canovaccio in cui intessere la propria danza contro la violenza sulle donne. OBR è stato un evento glocale dove la globalizzazione e l’internazionalità si sono fuse con la localizzazione e la particolarità dando vita a avvenimenti differenti e unici a seconda della latitudine in cui si sono svolti.

La glocalizzazione dunque, come altro filo conduttore dei vari eventi , la possibilità di poter declinare un tema importante come la violenza sulle donne a livello internazionale a seconda della cultura di appartenenza, unendoli universalmente con la temporalità dell’azione senza imporre cappelli nazionalisti ma lasciando intatta la specificità dei singoli avvenimenti.

Sulle altre critiche rivolte alla manifestazione, mancando un’adeguata analisi italiana a riguardo, le domande restano invece aperte: One Billion Rising è stata un’occasione presa al volo o mancata? Una stupida pantomima che “non serve” a niente? Un’occasione per mettersi in mostra e acchiappare voti in vista delle prossime elezioni? Forse alla fine nessuna di queste cose. Forse, come spesso accade, la complessità è troppo difficile da definire e contenere.

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Due cose

La prima è: come ho fatto a vivere finora senza aver mai ascoltato Rossella Faa?

Nel panorama musicale sardo, tra una tradizione ancestrale importante, il jazz declinato nella sua sarditudine e latitudine, il rock e l’hip hop politicizzato e indipendentista, Rossella Faa mi scompiglia le carte, mi sconvolge le certezze, mi affascina e mi incanta.

E al contempo mi guida verso un mondo molto simile a quello mio di bambina, tra favole e storie sarde, tra pettegolezzi e ricette magiche e di cucina. E mi accompagna mentre faccio le pulizie, depressa per tutte quelle ragnatele, mentre canto una canzone americana per tirarmi su il morale in attesa di aprire le finestre di casa mia alla primavera (e sa domu mia open the windows a su berauuu):

 

Rossella è una donna, è tutte le donne, leggera e pesante allo stesso tempo, il suo sardo campidanese scivola come portoghese nel suo speciale omaggio alla musica latina e alla sua isola, cantastorie con mille volti e mille suoni.

Due cose, dicevo, e la seconda è: come ho fatto finora a non conoscere Therese Clerc?

Therese Clerc, 84 anni, femminista e fondatrice de La Maison de Babayagas, casa di riposo per donne autogestita. E’ un progetto meraviglioso quello di Therese, che parte nel 2005 e ha il preciso scopo di offrire non solo un luogo di vita ma uno sguardo differente sulla vecchiaia.

Come la Baba Yaga, figura mitologica delle favole slave, che vive nel profondo della foresta, così le donne della casa hanno un’impronta ecologica all’insegna della condivisione delle esperienze, con spazi interamente dedicati alla ricerca e alla formazione sull’invecchiare bene, perchè come dice Therese: “la vecchiaia non è un naufragio”.

*A proposito di favole e storie: grazie a te Janedda mia che dalla Francia mi hai mandato il link su Therese, io dall’isola ricambio come vedi..e a sichire a contare contos, siat 🙂

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Meno di zero

Che ci fossero femminicidi di serie A e di serie B e che la violenza maschile sulle donne non fosse sempre ugualmante condannabile per l’opinione pubblica non avevo dubbi.

Ne parlava Isoke Aikpitanyi qui, e la differenza tra femminicidi compiuti su donne bianche, conteggiati e enfatizzati talvolta fino al parossismo, fanno purtroppo da contraltare alla mancanza di notizie sui femminicidi di donne nere, spesso prostitute o considerate immigrate clandestine: il più delle volte nemmeno un trafiletto sui giornali. Tutt’altra musica invece se una giovane donna italiana viene stuprata o uccisa da un uomo non italiano: c’è gente che per aver gonfiato ben bene i femminicidi compiuti da stranieri si è trovata eletta e benedetta e adesso occupa poltrone seduta bella larga.

E così, anche in Sardegna ieri c’è stato un femminicidio, ma un femminicidio così così, un femminicidio piccolo, banale, insignificante, un femminicidio che non vale la pena di interrogarsi, di conteggiarlo, di indignarsi sul socialnet, di farci le trasmissioni in televisione. Lei aveva 87 anni, l’assassino ne ha 90, ha pure cercato di ammazzarsi lui, povero vecchio, è tanto un uomo mite, dicono i giornalai. Subito i domiciliari per questo marito assassino, che volete che sia. Magari c’aveva pure l’alzheimer, che ne so, tanto quando hai queste patologie le famose “istituzioni” non ci sono mica, è una roba di famiglia la malattia, e pure il femminicidio quando ci scappa.

E la notizia resta lì, confinata nel quotidiano locale anche oggi, non si sentono reazioni né strilli di femministe né conteggi né cifre sparate a muzzo. Non è un paese per vecchi, questo, per vecchie meno che mai. Quanto vale la vita di una donna di quasi novant’anni per i media direi nulla, quanto vale per i lettori o telespettatori meno di zero. E’ solo a me che rode come un tarlo, è solo che tutto questo mi lascia smarrita e confusa; io che coi vecchi e in mezzo ai vecchi ci vivo non riesco a sopportare questo assordante silenzio.

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Stupri in India e neocolonialismo italiano (aggiornamenti)

Questo post prosegue da qui. Mio malgrado sono costretta a pubblicare gli aggiornamenti sui media italiani neocolonialisti, che a dispetto di tutto, continuano a fare presa e ad avere un notevole seguito.

Stamattina il sito dell’Ansa ha pubblicato questa notizia:AnsiaLa notizia è rimbalzata nel web italiano istantaneamente e ha conquistato la homepage di Repubblica e La Stampa nel giro di pochissimo tempo:Repubblica, contrariamente al titolo Ansa, precisa: “in un distretto” dando la precedenza ad un tentativo di linciaggio che però risulta essere il linciaggio di un negozio (vedi mito del selvaggio) e attribuendo la notizia del soprabito ad un singolo territorio, non più al subcontinente indiano nella sua interezza.

Basta infatti fare un giro veloce in rete, sui media generalisti indiani, per scoprire che questo fatto in India ha tutto un altro tipo di importanzaLa notizia è infatti quella che io ho cerchiato in fucsia (un omaggio alla Gulabi Gang che ormai imperversa ovunque ->vedi sempre il mito del selvaggio)

Come mai tanta disparità fra i due paesi nel dare quest’informazione?

Se andiamo ad esaminare la notizia italiana scopriamo infatti che la notizia si riferisce al territorio di Pondicherry. L’Ansa, Repubblica e La Stampa si impegnano a farci sapere che trattasi di ex colonia francese, non si capisce bene perchè, probabilmente per fare un po’ di storia aggratis, dopodichè la notizia su cosa sia il territorio di Pondicherry si ferma lì. Basta però fare un giro su Wikipedia per scoprire che cos’è davvero Pondicherry, ossia un minuscolo territorio diviso in 4 distretti che non ha nemmeno un milione di abitanti.

Per fare un paragone su quanto è successo oggi, è come se sulla homepage di Publico, quotidiano portoghese, campeggiasse la notizia di un’ordinanza del sindaco di Pignataro Maggiore sull’obbligo di allungare le gonne alle donne, facendola passare per un problema che riguarda l’Italia intera, suscitando indignazione nei suoi lettori e nelle sue lettrici e mistificando la realtà.

Nel frattempo, mentre gli italiani e le italiane si baloccano con il colonialismo, l’articolo di Vandana Shiva The Connection Between Global Economic Policy and Violence Against Women del 3 gennaio è passato totalmente inosservato a casa nostra, sia nei media generalisti che in quelli alternativi e femministi. Sempre nel frattempo, la protesta, come riporta il Guardian (grazie Enrica) si allarga a Nepal, Sri Lanka, Pakistan e Bangladesh nel nostro silenzio generale.

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Damini e il neocolonialismo italiano

Damini è morta. Damini non c’è più. Damini.

L’hanno ribattezzata così le persone che non conoscono il suo vero nome, la giovane studentessa di Delhi che di ritorno dal cinema con un amico è stata brutalmente stuprata in un bus e ridotta in fin di vita. Damini, a proposito di cinema, come il nome di quel vecchio film in cui la protagonista si batte contro la famiglia e la società per far ottenere giustizia ad una vittima di stupro di gruppo. Damini, Nirbhaya, Amanat, nomi che avevano già identificato la ragazza come un’eroina, prontamente immersa in quel processo mitico-epico-eroico e anche un po’ nazionalista a cui molti indostani non riescono proprio a rinunciare. Damini s’è pure un po’ persa tra i fumi del capodanno e le devastazioni alcoliche e mangerecce degli ultimi giorni, diciamocelo pure.

Questa è stata una lunga settimana neocolonialista di notizie che, putacaso, sono finite nel nulla; banalizzate, come sempre accade, nel flusso del web e dei socialnet e nel solito cambiare argomento appena si presenta l’occasione, un po’ nello stile del presentatore tv che dopo aver intervistato una sopravvissuta all’olocausto si fionda con nonchalance al gioco delle buste “vuole la uno, la due o la tre?”

Lo stupro di gruppo, si sa, è un argomento che fa sempre scalpore, sicuramente molto più delle violenze domestiche che sono la maggioranza, soprattutto quelle quotidiane che avvengono in ambito matrimoniale in India, in Italia, in Zimbabwe, in Canada, diciamo pure ovunque. Perfino nel Times of India (dopo aver atteso per diversi secondi che la finestrona pop up sul sito di incontri matrimoniali si chiuda) si trovano articoli per nulla timidi sulla violenza domestica già all’indomani della morte di Damini, solo che noi non li abbiamo mica visti che si doveva preparare il tiramisù per fine anno. Continua a leggere

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L’onda

La maggior parte delle persone è occupata in una qualità significativa di comportamenti inutili. Mentono, commettono piccoli furti, non rispettano le regole del traffico, abbandonano il lavoro, odiano qualcuno, dicono maldicenze o usano qualche trucco sotto banco per superare il loro vicino. La persona sovrasocializzata non può compiere queste cose, o se le compie queste generano in lui un senso di vergogna e di odio di sé. La persona sovrasocializzata, addirittura, non può neanche provare, senza sentirsi in colpa, pensieri o sentimenti contrati alla moralità accettata; egli non può avere “cattivi” pensieri. E la socializzazione non é solo materia di moralità. Noi siamo sovrasocializzati per conformarci alle molte norme di comportamento che non cadono sotto il titolo della moralità. Così la persona sovrasocializzata è legata a un guinzaglio psicologico e spende la sua vita percorrendo binari che la società ha costruito per lui. In molte persone sovrasocializzate il risultato è un senso di coercizione che può divenire una dura sofferenza. Noi sosteniamo che la crudeltà peggiore che gli esseri umani si infliggono l’un l’altro è la sovrasocializzazione.

[tratto da “La società industriale e il suo futuro” di Theodore John Kaczynski (Ted Kaczynski) meglio conosciuto come il “Manifesto” di Unabomber]

 

Sei mattiniera oggi, sveglia alle 5 e mezza per prendere l’unico treno che la mattina ti porta dalla valle in città. E mentre ti trucchi, un po’ di matita, copriocchiaie d’ordinanza, rimmel e l’ombretto no che non lo sopporti, pensi che 7 euro andata e 7 euro ritorno sono tanti da spendere per una che deve solo portare un curriculum. Recruiting la chiamano, questa giornata del cazzo dove agenzie interinali accumulano vite su pezzi di carta da impilare in cartelline per poi distribuirle al padrone di turno. 14 euro per portare un curriculum, minchia devi essere proprio scema ma ti stai già facendo troppi problemi e sai già che se ci pensi bene bene non ci andrai più. Allora zero spazio ai pensieri, caffè, merendina senza appetito ed esci di casa alle 6.30 che il treno passa alle 7 e dieci. Continua a leggere

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Un anno

Sembra passato davvero tantissimo tempo dall’omicidio di Diop Mor e Samb Modou per mano fascista, invece è passato solo un anno. Un anno in cui molte cose sembrano cambiate ma il razzismo, guarda caso, resta sempre quello, indifferentemente dalle latitudini e dalle presunte politiche che dovrebbero essere attuate per combatterlo. Quali possano essere poi i provvedimenti statali o legalitari per far cambiare idea ad un qualunque imbecille convinto dell’inferiorità delle persone con un colore diverso di pelle, resterà sempre un mistero. Forse si potrebbe cominciare a sanzionare tutta l’orda mediatica che “daje al rumeno” quando uno straniero commette un reato, forse si potrebbe cominciare a chiudere i covi fascisti, forse si potrebbe imparare a essere meno tolleranti con gli intolleranti come enuncia il famoso principio. Chissà.

Di certo ad un anno di distanza l’unica cosa che si è capita è che il movente, gira e rigira, alla fine non era mica il razzismo. No. Sono stati i problemi psicologici. Psichiatrici. Depressivi. E’ stato il freddo, il caldo, un’indigestione, un raptus, tutto ma non il fascismo, perchè come si sa, Casapound è fascista ma non è affatto razzista. Del resto come potrebbero esserlo questi ragazzi che dicono degli immigrati: “a noi stanno bene, basta che se ne tornino a casa loro”, mica è razzismo quello. E poi li abbiamo visti tutti in Birmania fare leva sull’eccidio di un popolo per smerciare la loro merda fascista e allenarsi a fare i golpisti, e manco quello è razzismo, è beneficenza.

Oltretutto anche noi un abbiamo sacco di cose da fare anziché pensare all’antifascismo, adesso c’è questa moda dei “microfascismi” per cui stanno tutti/e a spiluccarsi in testa come le scimmie mentre le lame, indisturbate, volano e feriscono e ammazzano. Tanto il fascismo non c’è più, è stato debellato tipo il vaiolo, figuriamoci il razzismo, estinto come il mammuth pure quello.

E del resto mi pare che sia stato detto più e più volte che l’antifascismo è colmo di slogan vecchi e triti, che non sa offrire valide alternative, che è sempre la solita vecchia minestra. Peccato che sia stato proprio questo antifascismo “vecchio stile” a buttare fuori a calci in culo Casapound da salita S.Raffaele a Napoli. Allora, guarda caso, nessuno disse che gli antifascisti erano un concentrato di frasi vecchie come il cucco ed erano portatori di metodi superati, guarda un po’, allora nessuno fiatò.

Un anno fa, qualche giorno dopo l’assassinio di Diop Mor e Samb Modou e il ferimento di Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike, collaborai alla stesura di questo mini-dossier che pubblicammo su Femminismo a Sud, blog di cui ai tempi facevo parte. Frutto di un semplice copia-incolla riassumeva in un unico post vari link di articoli che sdoganavano apertamente Casapound oppure in maniera meno evidente sottolineavano l’appeal dei fascisti del terzo millennio. Mai l’avessimo fatto: ci accusarono addirittura di aver creato una “lista di proscrizione”, dove avremmo invitato alle pallottole, alla violenza, all’eliminazione fisica degli autori di tali articoli. Niente di più falso.

Io stessa feci copia-incolla di una lista di giornalisti che avevano aderito alla libertà di manifestare dei fascisti, elenco che era rimasto per più di un anno ad ammuffire indisturbato nel sito di Casapound e che avevo visto circolare per mesi su Indymedia o altri siti senza che nessuno si prendesse la briga di accusare i fascisti o gli antagonisti di terrorismo. Quella lista in particolare, evidentemente copincollata perchè non ci andava di linkare il sito di Casapound, ci costò moltissimo. Furono scritti molti post contro di noi, fummo accusate/i, noi che manco mangiavamo carne, di fascismo, di terrorismo, di violenza, molta gente si fece pubblicità gratuita, ricevette solidarietà spicciola di gente ignara che neppure aveva letto il nostro post, si rafforzarono le famose “conventicole” del film di Virzì tipiche della capitale, si sfasciarono amicizie, si costruirono alleanze. Rischiammo grosso, comunque, solo per aver cercato di comprendere di chi potessero essere le responsabilità di quanto accaduto solo qualche giorno prima a Firenze.

Qualcuno/a probabilmente si starà chiedendo perchè sono andata a rivangare tutto questo e perchè io stia pestando nuovamente questo gigantesco merdone.

Per il piacere di ricordare innanzitutto, perchè non c’è nulla come la memoria che possa servire contro chi cerca di manipolare la storia a suo piacimento. Per ricordare Samb Modou e Diop Mor e i loro amici e familiari che ne hanno vissuto la dolorosissima perdita. Per tenere a mente che combattere i fascisti e i razzisti si può e si deve fare e infine per far presente che chi ha permesso tutta questa collusione e questa grande tolleranza con i veri mandanti di questa strage, i fascisti, si trova ancora là, esattamente come l’anno scorso, intento ad ad appestare politica e giornalismo con i suoi miasmi e i suoi messaggi di pace, fratellanza e fintogandhismo mentre le altre persone ci lasciano la pelle. Perchè le responsabilità, quelle vere, ancora non se le è prese nessuno in questo lunghissimo anno, e l’omicidio di queste due persone è diventato ormai brace che scotta i pensieri, l’animo, qualcosa che i veri colpevoli non possono più procrastinare, rimandare, far scivolare via ancora per troppo tempo.

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Sì ma quante sono?

Non si sa, è un vero mistero. 101, 110, 97, 64, non si sa quante sono queste morte ammazzate in quanto donne. Lo sapremo mai? Chissà.

Non sono molto speranzosa in questo senso. Come qualcuno/a già saprà gestisco insieme ad un’altra persona, in grande silenzio, quest’altro blog, che ha la piccolissima pretesa di documentare le violenze di genere che avvengono nella mia isola. Fino ad ora, dall’inizio dell’anno, ne ho contate ben 71 (ma molte ci saranno sicuramente sfuggite): la maggior parte sono notizie di violenza sulle donne, specialmente di stalking. Violenze su minori una quindicina. Violenze sugli uomini assolutamente nessuna, ci sarebbe solo l’omicidio di Sorso avvenuto all’interno di un bar tra una giovane tossicodipendente e un avventore ubriaco che io non reputo assolutamente omicidio di genere e invece Bollettino di Guerra sì (il perchè mi sfugge totalmente).

Solo negli ultimi tre giorni ho trovato ben 3 notizie di violenza sulle donne in Sardegna, mi chiedo a che quota si potrebbe arrivare se in tante/i cominciassero a monitorare i propri luoghi di appartenenza in questo senso, la propria città-provincia-regione, se si creasse addirittura una vera e propria rete in cui raccogliere notizie sulla violenza di genere. In questo modo non si lascerebbe il compito solo ad un osservatorio nazionale (sul modello dell’osservatorio omofobia ad esempio) delegando il tutto ad un’associazione o ad un ente, o alla casa delle donne di Bologna che a fine anno svela il numero delle morte ammazzate per femminicidio ma non quello delle altre violenze o di vittime considerate collaterali (notizia di oggi è ad esempio quella dei due bambini uccisi per fare “dispetto” alla moglie e per me sono vittime di femminicidio) o a Bollettino di Guerra che riporta soprattutto femminicidi, sporadiche violenze su donne e violenze sugli uomini “per allargare l’indagine” ma la maggior parte di quelle su donne, bambini, trans, gay ecc. che avvengono giornalmente no.

Mi si potrà rispondere che buona parte delle notizie eventualmente raccolte sarebbero solo reati ipotetici in quanto sterili articoli di giornale, impossibili da seguire nella loro presunta veridicità fino a processi avvenuti, purtroppo totalmente alla mercè delle opinioni personali di chi li catalogherebbe per importanza e/o motivazione e molta parte di quelle notizie andrebbero perdute: sono d’accordo su tutte queste obiezioni.

Ma sono anche ugualmente convinta che un tentativo vada fatto in questo senso. Ci vorrebbe molto poco in realtà: una connessione a fine serata o una volta ogni due giorni, uno spazio simile ad un blog ma soprattutto la volontà di partire da sé, di prenderci lo spazio senza chiedere permesso.

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Quelle due o tre cose che non vorresti più leggere

Visto e considerato tanto squallore mediatico e un uso del web veramente penoso negli ultimi tempi ho pensato di risolvere la questione affrontandola come un’adulta responsabile nel modo che mi è più consono: la butto in caciara. Ci sono degli argomenti che tornano sempre a galla, sì un po’ come gli stronzi ma in maniera più elegante, roba talmente trita e ritrita che veramente non si può, avete stracciato le ovaie, non vogliamo leggerle più. Mai più.

 

La prima è la famosa frase di Voltaire.

Avete subito capito quale, nel caso ce ne fosse bisogno “Non condivido la tua idea ma darei la vita affinchè tu possa esprimerla”. Ora, questa frase in sé e per sé non significa assolutamente nulla a meno che non conosciate qualcuno che si è immolato per idee altrui; nemmeno Gesù Cristo ha fatto una cosa del genere, e infatti non ha alcun senso. La frase incriminata, oltre ad aver subito nel tempo pericolose mutazioni genetiche non è affatto di Voltaire ma è una citazione de “Gli amici di Voltaire” del 1906. La paternità, anzi la maternità della stessa, è di Evelyn Beatrice Hall, una delle tante scrittrici che firmavano i propri libri con uno pseudonimo maschile poiché la letteratura non era considerata affare da donne. La citazione quindi non ha assolutamente nulla di illuminista né tantomeno di democratico (nel senso becero del termine “in democrazia tutti possono parlare”) come si vuole far credere, semplicemente presa così da sola non ha un grande senso logico, al massimo può avere un’approssimativa lettura idealistica: bella è molto bella, per carità, ma è anche una bella cagata. Continua a leggere

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E la ministra disse

E la ministra disse “choosy” e tutti eseguirono.

Tutta d’un tratto ci fu la rivolta: nel web è facile che si prenda subito fuoco e partì immediatamente la sfida a chi aveva il curriculum più fitto e guarda quante cose hanno fatto queste persone e quanto si sono inchinate a fare lavori umili, sempre più umili, sempre meno choosy.

Perchè è importante spiegare a una tizia che non ti rappresenta un cazzo che non è mica come dice lei, lei-proprio-lei che non va mica alle poste a pagare le bollette e non fa la spesa al supermercato. Però tu quelle cose gliele devi dire lo stesso perchè sennò ti senti male quindi per dimostrare che in realtà tu non sei tanto sbagliato (mica lei, no, tu) ecco il tuo curriculum piazzato in rete ed è una gara a chi ha fatto le cose meno choosy, le più terra terra, ed è la prova che ci facciamo perfino calpestare nei nostri diritti basilari per dimostrare a gente a cui non gliene può fregare di meno che non siamo affatto come pensano loro.

Immagini disgustose di persone in competizione per stabilire chi ha raccolto più merda e subito più umiliazioni, espressioni di odio sociale nei confronti di chi invece si sottrae a questo sistema volontariamente: invece di essere contenti dell’esistenza di persone che non hanno nessuna intenzione di rubare il vostro lavoro precario vi danno perfino fastidio.

Il lavoro nobilita l’uomo, si dice, ma io al vostro posto non ci scommetterei.

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