Damini è morta. Damini non c’è più. Damini.
L’hanno ribattezzata così le persone che non conoscono il suo vero nome, la giovane studentessa di Delhi che di ritorno dal cinema con un amico è stata brutalmente stuprata in un bus e ridotta in fin di vita. Damini, a proposito di cinema, come il nome di quel vecchio film in cui la protagonista si batte contro la famiglia e la società per far ottenere giustizia ad una vittima di stupro di gruppo. Damini, Nirbhaya, Amanat, nomi che avevano già identificato la ragazza come un’eroina, prontamente immersa in quel processo mitico-epico-eroico e anche un po’ nazionalista a cui molti indostani non riescono proprio a rinunciare. Damini s’è pure un po’ persa tra i fumi del capodanno e le devastazioni alcoliche e mangerecce degli ultimi giorni, diciamocelo pure.
Questa è stata una lunga settimana neocolonialista di notizie che, putacaso, sono finite nel nulla; banalizzate, come sempre accade, nel flusso del web e dei socialnet e nel solito cambiare argomento appena si presenta l’occasione, un po’ nello stile del presentatore tv che dopo aver intervistato una sopravvissuta all’olocausto si fionda con nonchalance al gioco delle buste “vuole la uno, la due o la tre?”
Lo stupro di gruppo, si sa, è un argomento che fa sempre scalpore, sicuramente molto più delle violenze domestiche che sono la maggioranza, soprattutto quelle quotidiane che avvengono in ambito matrimoniale in India, in Italia, in Zimbabwe, in Canada, diciamo pure ovunque. Perfino nel Times of India (dopo aver atteso per diversi secondi che la finestrona pop up sul sito di incontri matrimoniali si chiuda) si trovano articoli per nulla timidi sulla violenza domestica già all’indomani della morte di Damini, solo che noi non li abbiamo mica visti che si doveva preparare il tiramisù per fine anno.
Facendo un’analisi generale degli articoli in lingua italiana che sono riuscita a leggere le reazioni nostrane alle notizie che venivano dal subcontinente indiano si possono dividere in due filoni principali:
a) il mito del selvaggio
b) la manipolazione a scopo politico
Comincio subito col dire che ovviamente il mito del selvaggio la fa da padrona nei media italici e buona parte degli articoli sono atti allo scopo: lo stupro di gruppo, si sa, invoca sempre scenari di tribù ancestrali dove uomini di colore simili a scimmioni gonfi di libidine rapiscono donne per soddisfare voglie non meno esplicitate causa insoddisfazione sessuale. Infatti dalle nostre parti, in quanto bianchi, non repressi sessualmente e “civilizzati” lo stupro di gruppo non esiste, quello che è accaduto a Pizzoli (l’Aquila) poco tempo fa ad esempio ce lo siamo solo sognato ed anche il suicidio di Carmela Frassanito, 13enne stuprata dal branco per quattro giorni e poi buttatasi dal settimo piano perchè non fu creduta non è successo mica a Taranto ma a Mumbai, io lo ricordo benissimo.
Dapprima in sordina, poi sempre più platealmente sono circolati in questi giorni tutta una serie di articoli che tendevano a identificare il subcontinente indiano e più in generale i paesi cosiddetti “in via di sviluppo” secondo certi canoni occidentali molto datati, come terra di stupro. In prima linea ovviamente troviamo i due quotidiani nazionali per eccellenza con esempi come questo del 21 dicembre dove si insiste sulla pericolosità del nascere donna in India fino ad arrivare alle reazioni dopo la morte di Damini in cui ormai la vulgata della terra di stupro è data per assodata sin dal titolo.
In molti blog e siti sono circolate notizie inventate di sana pianta basate su statistiche inesistenti fino ad ipotizzare scenari inquietanti dove nel subcontinente indiano si dovrebbe verificare addirittura uno stupro ogni venti minuti. In realtà le uniche statistiche sul numero delle violenze sessuali nei diversi paesi in rapporto agli abitanti che sono a nostra disposizione sono quelle Onu e la loro attendibilità risente di moltissime varianti. Non esiste infatti una statistica sul numero di violenze che non vengono denunciate, per cui in buona parte degli stati occidentali troviamo numeri di gran lunga superiori rispetto all’India o a molti stati africani dove non esiste nemmeno una legislazione sullo stupro. Dati non attendibili in toto, ripeto, vista e considerata anche la variabilità della giurisdizione in materia (il sexual harassment ad esempio in molti paesi è considerata violenza sessuale, in altri no).
Da dove provengano quindi queste statistiche fasulle non ci è dato sapere, quello che è certo invece è che lo stesso problema sui dati, visto l’enorme risalto mediatico che è stato dato in occidente alle proteste contro gli stupri (risalto che non è stato dato invece due anni fa alle oceaniche manifestazioni indiane contro la corruzione), ha visto coinvolto non solo l’Italia ma anche buona parte del mondo occidentale che, come spesso accade, si trova ad avere a che fare con il suo fantasma razzista.
Purtroppo, neppure i cosiddetti siti antagonisti e femministi sono rimasti immuni dal mito del selvaggio e mi ha fatto enormemente male constatare che commenti di questo tenore si sono succeduti a ritmo forsennato in questi giorni. Sono proprio le femministe italiane spesso e volentieri a disconoscere l’esistenza di un femminismo indiano, le stesse che da decenni leggono Vandana Shiva e vanno al cinema a vedere i film di Deepa Mehta. La Gulabi Gang, ad esempio, utilizzata talvolta in occidente come rafforzamento del mito del selvaggio, ha attecchito così profondamente nell’immaginario collettivo nei giorni scorsi da far passare l’idea che in India sia l’unico tipo di femminismo possibile, nonostante operi principalmente in un contesto prettamente rurale specie nello stato dell’Uttar Pradesh e non abbia assolutamente nulla a che vedere con il grande inurbamento del territorio di Delhi dove è avvenuto lo stupro di Damini.
Ma veniamo al filone colonialista e allo sbiancamento politico delle notizie. Innanzitutto la prima operazione è stata quella della comparazione tra Italia e India. Come si possa solo immaginare di accostare un singolo stato di 60 milioni di abitanti con un intero subcontinente di 28 stati e 8 territori abitato da più di un miliardo di persone è francamente qualcosa di stupefacente. I paralleli sono ovviamente continuati nei giorni e imperversano tuttora nei tentativi di appropriazione e/o di assimilazione di cultura, storia, religione e chi più ne ha più ne metta.
La seconda, direi molto temeraria, è stato il fiorire tutto italiano di articoli filogovernativi dove hanno fatto da padrona le lodi intessute a Sonia Gandhi, donna bianca considerata “madre della patria” o più comunemente conosciuta come“madam” dagli indostani. Queste sviolinate sono andate a scontrarsi platealmente con le proteste di piazza antigovernative, con il trend topic “theek hai” su twitter frutto della figuremmerda del primo ministro Manmohan Singh durante una trasmissione tv mentre perfino Amul (sì, è una famosa cooperativa lattiero-casearia) protestava contro Mukherjee, reo di aver detto frasi infelici sulle contestatrici e sui tentativi di emancipazione delle donne indiane.
Lo sdilinquimento italico su Sonia Gandhi si è infranto inoltre davanti alla protesta contro Sheila Dikshit, una delle tante donne politiche indiane, che da Indira fino alla bianchissima Sonia hanno sempre assicurato protezione alla cultura patriarcale e all’establishment politico grazie a leggi che hanno sempre ghettizzato le donne piuttosto che liberarle (vagoni e bus per sole donne sono un classico esempio della loro politica).
Alle soglie delle elezioni politiche italiane ovviamente non sono mancati i parallelismi politici tra i diversi partiti indiani e quelli nostrani. Ai nazionalisti indù del BJP è stata affiancata addirittura la Lega Nord con risultati a dir poco esilaranti mentre il partito del Congresso, ormai da anni nella bufera per inettitudine e corruzione, ha ricevuto uno sperticamento di elogi da parte di certi media nazionali di area piddina che hanno preferito non concentrarsi sul malgoverno ma hanno puntato tutto sul primo tema della notizia, ossia sul mito del selvaggio.
Una certa dose di confusione è certamente alla base dei due filoni principali degli articoli che i media nazionali ci hanno propinato in questi giorni in cui le sorelle e i fratelli indostani stanno lottando, ma molta di questa confusione è chiaramente generata da una visione volutamente monca a causa di un senso di malcelata superiorità, da colonialismo culturale, da razzismo becero. Stupisce molto che, nell’era digitale, si faccia ancora un uso limitato e limitante del web, fino a spingersi alla palese mistificazione dei fatti, contando sulla pigrizia dei lettori che si rivolgono principalmente a fonti in lingua italiana. Il mio augurio infatti, come primo post del 2013, è che nel prossimo e immediato futuro sempre più utenti digitali diventino globali e attingano direttamente alle notizie rivolgendosi a fonti dirette, non attraverso gli specchi deformanti della nostra pseudoinformazione italiana.
-per una buona continuazione con il neocolonialismo nostrano nei confronti dell’India in un altro caso che ha tenuto banco negli ultimi mesi questo post di Giap a illuminare gli angoli oscuri del razzismo di casa nostra.
Link “utili”:
-per una conoscenza “media” del femminismo indiano http://feministsindia.com/
-per il fenomeno indiano dell’eve teasing http://blog.blanknoise.org/
-per una visione “ai margini” (ma non marginale) l’articolo, già fuori dal coro precedentemente alla morte di Damini, di Anuradha Bhasin Jamwal sul Kashmir Times Our coloured intolerance to rapes
-Vandana Shiva: The connection between global economyc policy and violence against women
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