Oh, finalmente!
Dopo giorni di ansia e di feroce aspettativa, dopo lunghe notti insonni a rigirarmi nel letto come una cotoletta, dopo albe e tramonti di speranza mentre mi chiedevo: “Ma quando ne parlerà? Ma perchè non ne scrive? Ma cosa sta aspettando a darci il suo indispensabile parere sulla questione?” finalmente, l’amor che move il sole e l’altre stelle, cioè Roberto Saviano, oggi su l’Espresso ci fornisce la sua opinione su Amina Tyler e le coraggiosissime donne della rivoluzione tunisina.
A questo punto, visto che anche Iddio ha detto la sua anch’io posso dire la mia.
Princess Hijab, street art, Parigi
Ovviamente anche Roby riporta la notizia che è circolata in lungo e in largo nei media italiani con titoli altisonanti dal 4 luglio in poi, giorno del processo d’appello alla giovane tunisina: “Amina si è tolta il velo” cioè il sefsari, quel velo chiaro che le donne tunisine usavano mettere sopra il vestito per uscire e non cambiarsi d’abito, prima di entrare in tribunale.
E fin qui niente di strano, è un gran bel gesto di autodeterminazione.
Per il nostro santo poeta e navigatore invece significherebbe “sono libera”, in quanto il sefsari sarebbe, nell’immaginario savianico, il corrispettivo delle “sbarre”. Ma girando per il web troviamo addirittura titoli ben più interessanti che ci fanno apprendere la meraviglia di tale importantissima notizia: “Amina sfida i giudici”, “Il gesto coraggioso di Amina” e varie perle partorite dalle menti di eccelsi giornalisti.
Shadi Ghadirian, fotografa, Teheran
Ora, senza nulla togliere a questo atto di Amina, è noto che in Tunisia l’obbligo di velo non esista, anzi questo capo d’abbigliamento femminile è stato più o meno esplicitamente proibito (decreto 108), con conseguenze disastrose che andavano dalla discriminazione negli studi e sul lavoro alla repressione poliziesca per chi si azzardava ad indossarlo. Tutto questo fino a qualche anno fa quando, all’approssimarsi della cacciata del pezzodimm di Ben Ali molte donne, soprattutto giovanissime, hanno cominciato a riappropriarsi di questo elemento della propria tradizione, cosa piuttosto difficile durante i 23 anni di dittatura, dove il velo poteva perfino essere strappato dalla testa delle donne mentre gli uomini potevano continuare a portare la barba tradizionale senza conseguenze.
Presentarsi davanti ai giudici con il sefsari è dunque una consuetudine, una remota prassi che ha resistito nel corso degli anni nonostante le innumerevoli persecuzioni alla religione islamica ad opera del pezzodimm di Ben Ali e precedentemente di Bourguiba.
Insomma, in un momento particolarmente importante e delicato per le donne tunisine nel tentativo di liberarsi da OGNI forma di oppressione una fetta di occidente le riconduce, come al solito, a ciò a cui si riconducono tutte le lotte delle donne: il corpo.
Sarah Maple, artista visuale, Londra
Dalla balaklava delle Pussy Riot alle tette delle Femen alla battaglia sul velo è tutto un coprire e scoprire questo corpo delle donne, mentre di tutto il resto, che è poco visibile, non c’è la minima traccia nei media mainstream. Saviano, com’era logico, s’attacca pure lui al tram della corporeità senza sorprese, anzi mi sarei stupita del contrario; mi sarei meravigliata di un articolo, che so, sul fatto che le donne nel SUO paese vengano dicriminate in qualunque campo, ad esempio sul lavoro, nonostante siano mediamente più studiose degli uomini, solo perchè esiste il vago sentore che un domani possano andare in maternità e quindi sono costrette a stare a casa sobbarcandosi aggratis tanto lavoro di cura non retribuito.
Ebbene, a questo punto tocca anche a me inseguire quest’onda anomala sul corpo, quello per eccellenza ossia quello delle donne, dato che di coprire o scoprire uomini, bambini, anziani, non si parla mai (sono ectoplasmi probabilmente, mah) e lo farò procedendo in senso inverso: se per Saviano togliersi il velo ossia scoprire il corpo è sinonimo di libertà mi toccherà citare chi ha coperto il proprio corpo per sentirsi libera.
Siamo sempre in tribunale e la donna è sempre tunisina ma questa volta siamo in Italia, anno 2005: Monia Mzoughi si presenta interamente coperta per assistere al processo del marito, le chiedono di togliersi il velo e di farsi riconoscere, lei obbedisce e mostra volto e documenti. Non basterà, verrà denunciata e subirà un processo, conclusosi tre anni dopo, in cui verrà assolta.
Sarah Maple, artista visuale, Londra
Nessuno allora gridò al gesto coraggioso, anche se ci volle indubbiamente molto coraggio (più o meno di Amina?) per sfidare non solo i giudici ma lo Stato italiano e le sue leggi, talmente tanto coraggio da affrontare il processo rischiando fino a due anni di reclusione e migliaia di euro di multa, per non parlare delle conseguenze mediatiche: “sono preoccupata per i miei bambini”, disse allora la donna, trattata dai media come una sorta di delinquente. Allora non ci furono femministe che plaudivano all’autodeterminazione di Monia né illustri opinionisti che citavano quel gesto come simbolo di lotta, non ci fu nulla di tutto questo né mai ci sarà, come è logico, fino a quando si continuerà a seguire la rotta dell’etnocentrismo spacciata come baluardo della libertà.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, nella melma dove scrittori e giornalisti impegnatissimi ed esaltatissimi che fanno perfino i tour per pubblicizzare i propri libri non trovano di meglio che parlare delle lotte delle donne associandole CASUALMENTE sempre al corpo: come contenitore di vita futura, dispensatore di bellezza, sessualmente appetibile, nudo come segno di emancipazione e chi più ne ha più ne metta.
Mai che si parlasse del loro corpo, ad esempio. Eppure, in molti casi ce ne sarebbe bisogno.
*Nel prossimo post: il corpo di Roberto Saviano, o meglio, la mano sinistra del Vate! Tutto quello che avreste voluto sapere sul famoso dito indice corredato d’anello, ormai diventato un vero e proprio oggetto di culto da venerare come una reliquia. Alla prossima!
http://www.youtube.com/watch?v=2-SvxEYLFTM