Quante favole

“Sai, a volte penso a D. e lo immagino come un principe azzurro, ma vero, ti giuro, seduto sul cavallo bianco, che scende da palazzo X e mi viene incontro”

“Stai scherzando, vero? Dai, dimmi che stai scherzando..”

“No, non scherzo”.

Ti guardo e penso a quanto lavaggio del cervello, pubblicità, favole, racconti, storie varie, ti si sono infilate nella mente e hanno creato tutto ciò, perchè tu di tua sponte sto cazzo di principe potevi crearlo marchese, o ciabattino, o infermiere e non solo azzurro ma pure rosso, fucsia, verde acquamarina, che ne so.

E’ un attimo e io già deliro.

Eccolo, è lui, il tuo principe azzurro vestito d’azzurro, ma non è il tuo D, questo è biondo, con l’occhio ceruleo e il mantello azzurro che scivola sul groppone del cavallo, bianco. Sulla destra ha un cellulare azzurro con lo you&me e ti chiama 4, 5, 20, 100 volte in un giorno anche per chiederti che cazzo hai mangiato perchè da solo non ci sa stare, e tu gentile che rispondi pure seduta sul cesso, tanto poi ti richiama per sapere anche cosa hai bevuto, e come sei vestita, e quanto lo ami e quando lo sposerai. Dalla tasca del panciotto spunta il tubo di baci perugina e c’ha tutto l’ambaradan di cuori, cupidi, stalking melenso, due cuori e una capanna ma i calzini azzurri bella mia li lavi tu. Sta salendo via del Corso sul cavallo, tutto tronfio ed eretto, la zingara all’angolo gli chiede due spicci, lui solleva il naso nobile da principe e tira oltre perchè sta venendo da te, che oltre a smarronarti con lo you&me viene pure sotto casa tua a tutte le ore abbigliato in quel modo ridicolo a farti le serenate, o le scenate di gelosia, a seconda dell’umore.

Ma ecco che dalla piazzetta spunta lui, col suv nero, abbronzatura da barca a vela, fisicato, con l’occhiale da sole tattico: è il puttaniere, di ritorno da una delle sue conquiste che durano un nanosecondo, perchè lui ne cambia una a sera, è uno furbo lui, sempre libero che vola di fiore in fiore. Consumatore compulsivo, patito dell’usa e getta, la sua vita è un supermercato. Fotte tanto ma gode poco: non geme mai il puttaniere, non urla, non ha mai un sussulto, uno spasimo, niente di niente. Mentre sale col suv, proprio sotto il Conad, ricordando come in un sogno la serata in discoteca e tutte quelle tipe che ancora si deve fare (miii ma sono un’infinità! come farà?) vede il principe azzurro con la coda dell’occhio che gli viene addosso con tutto il cavallo, sterza di lato, BAM, va a sbattere proprio all’ingresso del Conad, vicino ai carrelli.

Incazzato, scende torvo dall’auto con la portiera ammaccata: “Stronzo pezzodimmerda, ma sei scemo? Lo sai che potevo ammazzarti?”

“Io non devo dare la precedenza a nessuno, io sono il principe azzurro”, dice quello, chiudendo il cellulare azzurro con uno scatto.

“Ah, sì?”e il puttaniere lo tira giù dal cavallo a strattoni e il principe comincia a dare calci e pugni a caso: finiscono entrambi per strada, all”incrocio, a darsele di santa ragione.

All’inizio è il puttaniere che ha la meglio, ficca il dito in un occhio al principe azzurro e quello se ne sta col bulbo ceruleo penzoloni per qualche attimo, ma poi il principe reagisce, brandisce lo spadino, infilza il puttaniere e lo sbudella un po’. Il puttaniere gli stacca un testicolo con un morso (era facile con la calzamaglia bianca individuarli), il principe urla, dà una ginocchiata sulle gengive al puttaniere, volano denti, sangue, interiora, pezzi di cervello, sangue e ancora sangue che allaga l’incrocio.

Una ragazzina col rossetto nero, secca e avvolta in un vestitino striminzito, osserva la scena, in mezzo al folto pubblico che morbosamente assiste divertito alla macelleria mattutina. Poi alza lo sguardo e lo vede, lì sullo sfondo, il cavallo bianco terrorizzato: i loro occhi si incrociano per un attimo poi lei si muove e piano lo raggiunge, lo accarezza sul collo e lui lascia fare. Lei gli toglie le briglie e lui lascia fare. Lentamente vanno via, insieme, fianco a fianco.

Rubo a Carmine, dal suo blog che amo immensamente, dalle sue parole di amore e furore, di anarchia e liberazione, parole scagliate contro i monoliti della legge, della società civile, della repressione:

“Mi dovrò intagliare una fica dentro la mente, aprire una vagina nella sostanza più dura del mio pensiero. I concetti non sono cazzi da brandire come manganelli. Occorre trovare il giusto accoppiamento tra i pensieri (ci sono pensieri maschi, pensieri femmine, pensieri senza genere) evitando però di prostituirli alle necessità di una logica. Bisogna fare in modo che anche le idee riecheggino i godimenti passati o futuri.

Il corpo di una nuova Comune. – Ossia il fuori che si veste anche del mio corpo, che ride anche sulle mie labbra, che gronda il sangue che sarà anche mio in ogni emorragia di senso.
Devo cercare i molti che sono nell’uno, l’algebra che sconvolge ogni calcolo, quel modo dell’affetto carnale dove la condivisione è un incastro mutevole, una divisione indivisibile, una sottrazione senza mancanze.
C’è tutta una teoria ineffabile di sessi che si avvicendano e s’accoppiano nel farsi del pensiero – che è da intendere anche nel senso che io mi faccio il pensiero: lo chiavo, lo slinguo, lo inculo – in un delirio sul pensiero (o del pensiero come delirio) a sfondo non meramente sessuale, bensì contro ogni “sfondo” e per ogni carne amorosa possibile.
Nonostante le ideologie e i poteri costituiti che se ne servono, il pensiero non si cristallizza una volta per tutte e si dà solo nel movimento, ossia nell’azione incessante che tende a verificare il suo stesso pensarsi.
Non c’è speranza per il sacro – o per la legge – dov’impera la carnalità e l’unicità qualunque dei corpi che si avviluppano amorosamente. L’anarchia è l’ordine del vivente, l’ombra fertile dove i semi decidono di germinare. Il potere può schiacciarne i fiori, ma il loro polline rimane incontrollabile e dissemina significati contro ogni potere.
Non si argomenta un corpo, lo si dispiega.
A farmi arrapare, è sempre un pensiero dello stesso genere del sesso che amo, ma a quest’ultimo aggiungo o sottraggo il mio genere e quello di molti altri pensieri passati, presenti e futuri che mi toccano, mi stregano.
Il mio corpo è una Comune formata da tutti i corpi attraverso i quali ho vissuto e grazie al cui avvicendarsi possiedo un pensiero di me, un’insieme di vicende che mi riguardano.
La Comune è il territorio dei corpi toccanti e che si toccano; la loro parola è sempre in eccesso, sempre aperta – cosce nude, spalancate, assalto di bocche, riconoscimento di ciò che ospita l’altro senza asservirlo, abbracci, strette, coiti che sono ammassi stellari, buchi che inghiottono il tempo, corpi che ridono. (…)

Spogliare il corpo di ogni spettacolo. Spogliare il mio e il tuo, di corpi, insieme ai loro pensieri, alle cose, alla parola che li limita.
Svestire il destino, toccare, amarsi, mentre l’idea del corpo continua a parlare senza di noi.

•••

Il cavallo bianco vi saluta, sta bene ora, dopo un po’ di tempo con me è andato via felice: mi dispiace, non c’è un finale hollywooodiano, non c’è un vissero tutti felici e contenti. Un po’ mi manca in verità, sarà stato anche un castrato ma con gli zoccoli si dava molto da fare.

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Una risposta a Quante favole

  1. Carmine Mangone scrive:

    In realtà, io credo che un “lieto fine” ci sia, e risieda proprio nel non volersi vincolare ad esso, nel non volerne costruire uno a tutti i costi (economia anti-domestica, bien sûr).
    C’è questa prossimità tra la ragazzina dal rossetto nero e il cavallo bianco; la loro adesione ad un movimento senza bisogno di sellatura, briglie e finimenti vari. Gli altri sono comparse, presenze larvate che affondano miseramente, trascinate giù dall’ironia inconsapevole (e tragica) dei loro stessi “sbattimenti”, senza libertà, senza discernimento.
    Sollecitato dal tuo scritto, stamane mi son riletto anche i due capoversi del mio libro che avevo omesso dalla citazione. Te li incollo qui di seguito, perché credo che diano maggior senso alla mia scrittura (e, forse, in parte, lo dico senza presunzione, ad ogni scrittura che si vuole aperta, spalancata sul mondo, “anarchica”):
    “(…) Partendo dalla sensazione che si ha del proprio corpo, l’Io è il più vero dei malintesi. Il suo discorso – il suo mettersi in opera – è senza soddisfazione ultima (senza “paradiso”) e quindi, proprio per questo, rimane consegnato alla struttura sempre manchevole e sempre in via di rifacimento del senso e del suo corpus di pensieri.

    L’impossibile è solo un nuovo campo di possibilità. Operazione sul reale, sulla creazione della realtà. Flusso che unisce l’origine del corpo – lontano, senza parole, eppure sempre prossimo alla decisione, all’esterno della morte dove la vita si decide – con la prossima origine che io preparo e che non vedrò.
    In alcuni momenti, accade proprio che io mi tocchi, mi tasti la carne di nascosto, congedandomi ironicamente dal pensiero che limita ed istituisce il mio mondo (il mio esterno), a partire da un interno insorgente, mortale, mai domo.
    Palparmi all’insaputa del pensiero: lo faccio per sentirmi vivo, per sentirmi passibile di ancora più vita, e senza necessità, senza l’assillo di farne necessariamente qualcosa. (…)

    Nel ringraziarti per l’amicizia e il compagnonnage, segnalo l’ebook gratuito della Maldoror Press dove originariamente compariva una prima stesura del mio scritto, L’arcangelico di Georges Bataille (congegnato, guarda caso, proprio insieme a due sardi): http://maldoror.noblogs.org/archives/220

    Un abbraccio*

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