Prova costume (ancora)

Avevo già scritto tutto ciò che penso di questo rituale declinato soprattutto al femminile in questo post semiserio.

La verità è che è facile ad un certo punto cadere nella tentazione dell’omologazione di massa.

La verità è che il mercato fa leva sulle nostre insicurezze per creare dei bisogni che non abbiamo.

La verità è che non si può essere un’altra persona e desiderare questo significa condannarsi all’infelicità.

Resistere, resistere, resistere alle pressioni sociali per sopravvivere.

http://www.youtube.com/watch?v=GylCWFVuyFs

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Donne e birra

La birra Ichnusa in Sardegna è una vera e propria istituzione, si sa. Poco importa che sia passata alla Heineken per i cultori della bevanda e poco importa dove e quanto venga venduta “in continente”: se non siete mai passati dalle mie parti certi rituali su questa birra non li conoscerete mai.

Nel 2012 cade il centenario della birra Ichnusa e per l’occasione è stato deciso di mandare in onda sulle reti nazionali questo spot. Certe volte mi sento proprio fortunata a non avere il televisore e questo è uno di quei casi.

Lo spot ritrae un’isola che non è mai esistita, fatta di ragazze morigerate e pie ma avvenenti (forse anche un po’ porche dentro?) con le labbra a canotto che nel 1912 avrebbero dovuto presumibilmente circolare tra i tavolini dei bar per servire giovanotti cavallerizzi. Io francamente non ho idea di dove i pubblicitari vadano a pescare queste minchiate e sinceramente non lo voglio manco più sapere, ci rinuncio.

Mia nonna, classe 1897, a quei tempi zappava la terra come buona parte delle donne di quel tempo (lavoravano tutte), solo le pochissime donne ricche di famiglia potevano permettersi di non dedicarsi direttamente all’agricoltura ma si occupavano comunque dell’amministrazione della casa e dei beni. Nessuna donna, specie se giovane, frequentava i tzilleri, a meno che non fosse la madre o la moglie del proprietario della bettola, altrimenti era espressamente vietato.

Nei primi decenni del secolo scorso le donne facevano un grande uso del tabacco da fiuto e giravano scalze, facevano la pipì in mezzo alla strada allargando solo le gambe sotto la gonna e svolgevano tutte troppi lavori di peso e manuali per curare quella “femminilità” che è arrivata in Sardegna negli ultimi anni attraverso la spinta di un immaginario americano anni ’50 che non ci appartiene minimamente.

Oltretutto la rappresentazione del giovanotto a cavallo che fa tanto il figo con gli amici (sempre a cavallo) riporta alla mente un’idea di ricchezza: la cavalcatura dei poveri in Sardegna è infatti sempre stato l’asino o tutt’al più il carro di buoi. Per maggiori dettagli sulla vita di quei tempi basterebbe che i pubblicitari di questo spot con la donna servile avessero letto almeno uno dei romanzi della Deledda, credo che intorno al 1912 guardacaso abbia scritto proprio Canne al Vento.

Ho cercato sul web l’indirizzo mail per mandare alla Ichnusa la mia formale protesta ma non ho trovato nulla; per ora mi limito a guardare le foto di mia nonna contadina con le mani come due badili e a sorridere..

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Disoccupazione

Oggi per l’ennesima volta la zia Jo ha rischiato di passare da “disoccupata” a “precaria”: colloquio di lavoro e contratto co.co.pro alle porte, fortunatamente è andata male altrimenti rischiavo perfino di lavorare. Rien à faire, manco stavolta. E sì che poteva venirmi un accidente se il colloquio filava liscio, del resto non è facile per chi non lavora da una vita ricominciare a faticare; ci vuole preparazione, ecchediamine. Sia mai che ti prendano a prima botta: niente affatto, devi soffrire.

-Vuoi essere sfruttata in un call center? Ti faremo sapere.

-O me lo dici ora o niente.

-E allora sticazzi.

Beh, del resto poteva andarmi peggio. Poteva capitarmi un colloquio per un posto in una biblioteca sperduta nell’universo e potevo perfino sentirmi dire: “Se ti piacciono così tanto i libri, se ti viene un orgasmo solo nell’odorarne le pagine e la solitudine ti sembra un sogno, sei assunta. A tempo indeterminato.” Seh, e poi chi la sente l’angina pectoris: io, in pieno colpo apoplettico con un ghigno terrificante di soddisfazione in faccia mentre defungo sommersa dai petali di rose, stile American Beauty, ma più cadavere. No no, meglio di no.

Infatti sono rimasta disoccupata e un po’ mi ci sono affezionata a questa parola.

-Che lavoro fa?

-Sono disoccupata.

C’è un po’ di orgoglio nel pronunciarla, la presunta vergogna che dovrei avere ormai l’ho persa tanto tempo fa (l’ho mai avuta?) e del resto, vivendo in Sardegna dove una donna su due non lavora, nessuno dice nulla, abbassano il viso e fanno tutti finta di niente. Solo sporadicamente avverto una qualche reazione nell’interlocutore, un sospiro, un minimo interesse: qualche mese fa l’ho detto ad una commessa ed è scoppiata a piangere davanti a me, tanto che alla fine l’ho consolata io (“Dai, passerà”..pat, pat..”coraggio, su”)

Sento sempre tante persone parlare di crisi e di mancanza di lavoro; ebbene, sto per scrivere una grande verità: buona parte di chi ciancia dell’argomento un lavoro ce l’ha. Difficilmente sento disoccupati parlare di disoccupazione, anche perché vivendo in quella situazione tutti i giorni a tutte le ore in tutti i minuti sinceramente non è che ti venga molta voglia di parlarne: le uniche volte in cui vorresti accantonare quel pensiero fisso magari chiacchierando con qualcuno di qualcos’altro di diverso, di solito arriva l’amico/a o più spesso il parente a ricordartelo.

Grazie mille, tutti molto gentili. Poi chissà come mai la gente si suicida eh. Chissàcomemai.

E’ anche per questo che non ho mai scritto finora assolutamente nulla sulla questione, è un argomento noiosissimo per chi lo vive, sempre la solita zolfa, dove ti giri giri parlano tutti dei tuoi problemi, ossia: disoccupazione, disoccupazione, disoccupazione. Apri il giornale: “c’è la disoccupazione”, e di solito lo scrivono certe facce di merda da migliaia di euro al mese, grasse risate proprio. Accendi la tv: idem, stesse facce di merda a dire la stessa cosa come se tu non lo sapessi. Come se tu, disoccupato, non te ne fossi accorto. Pensa quanto sei distratto, cazzarola.

E così ovunque vai. Disoccupazione, disoccupazione, disoccupazione. Ad libitum.

Poi arriva qualcuno che ti cataloga in una tipologia di disoccupato predefinita, ti incasella senza manco averti mai intervistato per sapere dove cazzo vuoi stare e a che razza di scansafatiche vorresti appartenere: c’è il disoccupato disperato che tenta gesti estremi, quello che porta curriculum vitae perfino in Papuasia e cerca forsennatamente, gli esodati, i pincopalli, i babbasoni e gli elfi del Fantabosco ma quelli che preoccupano di più, si sa, sono quelli che il lavoro non lo cercano proprio più si sono rassegnati fanculo tutti e arrivederci e grazie. Ennò non si fa così!

E’ un vero peccato che non mi chiami mai nessuno al telefono per sapere dove mi colloco perchè mi sa che non sono proprio classificabile: visto che cercare lavoro è un lavoro (anche molto faticoso) ogni tanto vado in ferie. Cerco per un po’ di tempo in maniera sistematica poi mi stanco e smetto, poi mi ripiglio e ricomincio daccapo; quando mi prendo una vacanza dalla ricerca di lavoro di solito mi dedico alla cura del corpo, alla bestemmia creativa e sistematica, scrivo post scemi sul blog, divento piromane e cose così.

Certo, ci sono delle volte in cui ti incazzi seriamente, magari quando senti gli anarchici riempirsi la bocca di certi discorsi sull’inutilità del lavoro e anche quando, al contrario, ascolti gli stakanovisti con la manfrina de “il lavoro nobilita l’uomo”. La verità, come sempre, sta nel mezzo, perchè ti senti nobilitato solo quando puoi svolgere un’attività che ti soddisfa senza essere sfruttato e del resto stare sempre senza fare un cazzo è un’attività mortifera che può portare seriamente all’apatia e al suicidio.

Sarebbe bello in generale che questa gente perdesse il lavoro da un momento all’altro, così, per vedere di nascosto l’effetto che fa. Diciamo che godrei nel vederli lottare (come fai tu) per una dieci euro con la loro madre pensionata, accapigliarsi per una bolletta dell’Enel e anche finire all’ospedale per aver fatto a botte con qualche stronzo peggio di loro (pagando il ticket, codice bianco). Lo so, è un po’ triste tornare alla realtà nuda a cruda di questa società fatta di soldi ma purtroppo mi riesce un po’ difficile staccarmene, potrei allontanarmene solo rinunciando ad essi. Quindi, visto che quei pezzi di carta servono anche per mangiare e bere, morendo semplicemente.

E ti incazzi anche quando senti le notizie dei disoccupati che si suicidano e un po’ ti preoccupi perché magari qualcuna di quelle persone l’hai conosciuta facendo la fila all’agenzia interinale e tu non hai saputo cogliere il suo malessere che è il tuo stesso perché sai benissimo a quali pressioni sociali sei sottoposto quando sei disoccupato e magari avresti potuto parlarci e salvargli la vita e bla bla bla. Fisime, inutili fissazioni. Chi compie un gesto così estremo forse ha perso qualcosa che tu non hai mai avuto e di cui non puoi proprio sentire la mancanza, forse l’avrebbe fatto lo stesso e la stessa rabbia che hai tu non se l’è mai ritrovata. Perché una cosa è certa: non ho nessuna intenzione di suicidarmi, prima di ammazzare me stessa c’è una lunga, lunghissima lista di gente da fare fuori.

Eppure, nella sfiga, mi sento una persona fortunata: almeno il problema della crisi globale che sta attraversando i continenti, che sta distruggendo Stati e Paesi interi e attanaglia la vita di tanta gente io proprio non ce l’ho. Il fatto è che non me ne sono proprio accorta di questa crisi. Pensa che culo.

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Film che non ho visto

Inauguro oggi una nuova rubrica di consigli (di zia Jo) dal titolo “film che non ho visto”: il web è talmente pieno di gente che fa recensioni a film e filmetti da non poterne più.
Tanto non mi trovo mai d’accordo con i giudizi altrui, i critici mi fanno decisamente vomitare e le stelline di gradimento le scaricherei nel cesso; del resto, come dice sempre un mio amico insegnante di chitarra: “l’arte non è complicata, o ti piace o non ti piace.”
Stavolta, non avendo visto i film in questione, li raccomando a occhi chiusi, è proprio il caso di dirlo.

Il primo film si chiama “Su Re”ed è famosissimo dalle mie parti, non puoi parlare con un conoscente senza che ti dica di aver fatto la comparsa in quel film. Il motivo per cui non l’ho visto è che non è ancora uscito al cinema, lo so, sembra una scusa banale ma è la verità.
Tutti ne aspettavano l’uscita nelle sale durante il periodo pasquale poiché è un film sulla passione di Cristo (banali..) e invece ancora nulla. Il film è nato e si è sviluppato in maniera travagliata, non ha neppure usufruito dei contributi statali ed il motivo è molto semplice: è un film in limba, ossia girato interamente in sardo, alla faccia di chi si fa tanto vanto della pseudo-tutela dello Stato italiano sulla lingua sarda. E invece ormai è solo un sogno pazzo e visionario che Giovanni Columbu, il regista del film, ha portato avanti con coraggio e con una caparbietà impressionante, giocandosi il tutto per tutto.

Il motivo per cui lo recensisco senza averlo visto lo troverete nel video qui sotto che racconta la scelta precisa del regista di rappresentare l’imperfezione anche nella figura di chi, in quanto figlio di Dio, dovrebbe rappresentarne l’assoluta imperfettibilità divina; un Gesù visivamente differente da quello a cui siamo sempre stati abituati così come tutto il resto degli attori, di cui molti disabili.

L’altro film invece si intitola “Semus fortes”, non è uscito al cinema e mi sa tanto che non è neppure in programmazione. Si tratta di un documentario che racconta la storia di una terapia sperimentale per persone affette da disabilità mentale: il trekking. Ebbene sì, dalle scalate nel Supramonte fino al Nepal i malati psichiatrici raccontano se stessi e la loro voglia di guarigione, le terapie riabilitative mai affrontate perché sostituite dagli psicofarmaci ordinati dai medici, superando vette e ostacoli e ritrovando la voglia di vivere.

Io questi film ME li consiglio. Poi fate voi.

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Patologie

“Non ho il diritto di portare un messaggio agli altri quando non c’è messaggio nella mia anima. Non ho il diritto di parlare di libertà poiché sono diventata una schiava abbietta in  amore.”
(Emma Goldman, lettera a Ben Reitman)

Memoria
Si dice della memoria degli elefanti, della nostra non si dice nulla. Per fortuna.
Ricordare le precise sensazioni a distanze siderali, eventi insignificanti, minutaglia trascurabile conficcata nella mente fin nei più piccoli dettagli. Scordare il vostro numero di telefono e no, che lavoro fate non me lo ricordo anche se me l’avete detto 20 volte, ficcatevela nel culo la vostra carta d’identità, la memoria non passa attraverso certe scorciatoie.
Io posso ricordare quello che mi avete fatto in quel lontano giorno pieno di sole e quanto mi ha fatto male ogni singola parola ma dimentico sempre di venirvi a trovare, di starvi vicino: la memoria è selettiva quando si tratta di covare rancore. E la passione per la storia e per le pieghe  degli avvenimenti è una febbre senza pace, sempre a rovistare come un ratto nell’immondizia a tentare di far risalire le verità perché una non è abbastanza, non è sufficiente a calmare  un fuoco che divora.
E tu che volti pagina in gran velocità che errore che fai a buttare via tutti questi preziosissimi ricordi: meglio, molto meglio fare come me e contemplarli, conservarli come un sacro custode fissando il nulla.

L’attivismo
Sono malata di attivismo. Anche quando non è il caso, anche quando vai a fare la cacca o dormi ti gratti l’attivismo e ti si torce la panza. Esplode sempre il maledetto bubbone, nei momenti più impensati, nelle occasioni peggiori, quando non dovresti: non riesci a contenerlo, è impossibile da arginare.
Ogni volta che fingi pause e mediti riflessioni ti accorgi di stare cospirando in contemporanea, non riesci ad aggirare in nessun modo la tua cazzo di malattia. Maledetta.
E tu non lo sai dove ti porterò, leggo la paura nei tuoi occhi di madre e sposa bambina, terrore di te e di ciò che stai tirando fuori di te stessa perché gente come me non ne hai conosciuta mai.
Non riuscendo a curarmi agito spettri di rivoluzioni, rivolte e consapevolezze nuove per puro disprezzo.

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Solidarietà a Femminismo a Sud

Poche parole, con enorme amarezza.

Femminismo a Sud, blog che ospita talvolta i miei deliri e della cui amicizia mi fregio è sotto attacco mediatico da diversi giorni.

Quello a cui stiamo assistendo come collettivo lascia veramente sgomenti; quando riuscirò a raggiungere una certa distanza da questi orribili avvenimenti per poterne scrivere lucidamente lo farò. Per ora solo un abbraccio a queste meravigliose persone antifasciste, antisessiste, antirazziste e antispeciste che vivono, lottano e sperano con me in un mondo migliore.

Solidarietà a Femminismo a Sud, qualunque cosa accada io sarò al vostro fianco.

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La professionista

Ecco, ha appena concluso il suo pezzo, giusto in tempo per farlo circolare tra quelle che contano, nei soliti giri giusti insomma, su quel giornale lì e su quel sito dove vanno tutte a leggere le novità. E’ soddisfatta la professionista del femminismo: questa volta si trattava delle lacrime di una ministra, mica poco insomma, e ne è venuta fuori una cosa niente male davvero, con tanto di analisi sociologica che certa gente se la sogna.

Certo, avrebbe anche potuto scrivere mezzo rigo sulle pensionate, quelle davvero colpite dalla manovra economica, ma non avrebbe avuto molto seguito, del resto è sempre meglio accodarsi ai giornali su queste cose, sono loro che decidono dove tira il vento. E poi da lì è facile contagiarsi a vicenda, si sa che nel circuito delle femministe di mestiere ci si intervista l’una con l’altra, si ricambiano i favori e si esprimono sempre pareri concordi, dirimenti dei conflitti, diplomatici e mai provocatori o eccessivamente stimolanti.

L’importante, oltre all’esercitare il ruolo di sedativo, è stare sempre dalla parte delle donne, a qualunque costo, anche se queste donne hanno consegnato tutte le altre al patriarcato. Perché hanno voglia a dire che far parte di una banca armata o del comitato scientifico di Confindustria sia la massima dimostrazione di collusione col capitalismo, il curriculum non è affatto indicativo ed anche questo refrain del capitalismo che poteva essere inteso come espressione diretta del patriarcato negli anni ’70 ha decisamente scocciato. Basta.

Ora che la professionista del femminismo riceve uno stipendio fisso niente male oltre a tutte le pubblicazioni e entrate varie, visto e considerato che presenzia ovunque e viene invitata da altre femministe che ne riconoscono l’importanza e il carisma. E poi c’è la reputazione da mantenere e quella rivista creata da lei e quell’associazione fondata sempre da lei ed anche quel comitato famosissimo, non ci si può più permettere di vedere il femminismo in un’ottica rivoluzionaria, soprattutto come movimento oppositivo.

Magari il liberismo sfrenato e le speculazioni bancarie portate avanti oggi si potranno aggiustare un po’ di qua e un po’ di là, ma opporsi o utilizzare nuovi paradigmi sociali ed economici proprio mai.

La professionista del femminismo conosce bene le parole della Lonzi “detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dall’egemonia dell’efficienza” oppure “dare alto valore ai momenti improduttivi è un’estensione di vita proposta dalle donne”, le sa a memoria, del resto è stata lei stessa ad organizzare un sacco di convegni sulla Lonzi nel passato e ci si è seccata la lingua a furia di sproloquiare della portata rivoluzionaria del femminismo.

Ma erano altri tempi e certo dispiace per le precarie, per le disoccupate, per queste migranti che vanno a pulire il culo ai vecchi per 4 spicci, per quelle che piangono lacrimoni grossi come fagioli a fine mese quando non riescono a pagare le bollette o a comprare i libri di testo ai figli. Del resto chi le vede mai queste qui, ogni tanto ne incrocia qualcuna al ristorante che fa la cameriera o le sente al telefono quando scocciano dai call center, sono proprio tanto troppo lontane dal suo mondo e le migranti ci sono solo quando si firmano gli appelli.

La cosa fondamentale, come già detto, è stare sempre dalla parte delle donne, e sicuramente meglio dalla parte della ministra “competente” che dalla parte di quella con un passato un po’ da zoccola, ma questo resti tra noi, in fondo nessuno ha mai visto spendersi una professionista del femminismo per una un po’ puttana, sempre per quelle competenti e dignitose, che quelle altre non sono come noi.

E neanche alle manifestazioni, se è per questo, e neppure ai flash mob o ad esempio alle proteste davanti ai consultori. Perché le femministe di mestiere sono sempre tanto impegnate e del resto basta usare la scusa della “frattura generazionale” per giustificare qualunque presa di distanza , basta affermare che tra persone di diversa età non ci si capisce per coprire quella brutta espressione che si tenta di occultare da anni: la  differenza di classe, la vera ragione che allarga sempre di più il divario tra chi ha paura di rischiare un pezzo della sua proprietà privata e chi non ha nulla da perdere.

http://www.youtube.com/watch?v=P9K11UxJzDw

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Il nido di corvi

“Nuoro non era che un nido di corvi, eppure era, come e più della Gallia, divisa in tre parti.”

via Veneto (liceo Scientifico)

“La gente di Nuoro sembra un corpo di guardia di un castello malfamato: cupi, chiusi, uomini e donne, in costume severo, che cede appena quanto basta alla lusinga del colore, l’occhio vigile per l’offesa e per la difesa, smodati nel bere e nel mangiare, intelligenti e infidi.”

“In fondo che cosa occorre alla donna, se vogliamo essere sinceri in un tempo come questo in cui è così difficile esserlo? Nient’altro che l’amore, e la capacità di amare. Tutto il resto vi sarà dato in soprammercato, diceva quel libriccino che qualche volta apriva, alla Messa.”

“Così come può darsi che la ragione sia un’altra, più generale e più profonda, ed è che in Sardegna la donna non esiste. E mi spiego. In Sardegna non esiste la gelosia, non esistono i delitti d’onore, come li chiamano, non esiste nulla. A differenza che nel resto del meridione, e anche in tanti altri paesi, la donna non segue a piedi il marito a cavalcioni sull’asino quando scendono al poderetto, va sul carro con lui, e quando tornano per le strade erte, e i buoi mugghiano sotto il carico, la donna sta sul carro, ed è il marito che scende e fatica più dei buoi. A casa governa le masserizie, comanda alle serve ed anche ai servi, custodisce le chiavi, e vende alla spicciolata i prodotti, ma non appare mai quando ci sono ospiti, neppure se sono amici di posata.”

viale Sardegna

“Il motivo è che, come dicevo, la donna non esiste. Per il sardo, parlo del sardo di allora, s’intende, prima che fosse un semplice inquilino di un’isola, com’è adesso, la donna, la moglie era come l’oggetto di un culto silenzioso, esposto alle vicende della vita, strumento delle esigenze della vita, e quindi anche delle esigenze del marito e della famiglia, ma come rarefatta, esterna a quello che è il dominio dell’uomo, cioè al governo del piccolo stato familiare. In questo governo non poteva né doveva entrare, più di quanto non possa entrare la regina nel governo del re. Non è da escludere che ci fosse un complesso di inferiorità del marito, in tutta questa costruzione; certo è che le cose stavano così, naturalmente: ancora una volta, insomma, quel che fa il padrone è ben fatto. Se con ciò si vuol pensare che la moglie era una schiava, allora è schiava anche la regina: e del resto la differenza tra la regina e la schiava corre sul filo del rasoio.”

“Nella notte profonda, Nuoro si estendeva percorsa da un vento gelido. Rotolava lontano un carro sul selciato. Non una voce. Due carabinieri in pattuglia, rigidi e annoiati, venivano su per il corso. Faceva quasi paura.”*

 

*Tutti i passi sono tratti da “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta. Post ideato, creato, prodotto e condiviso dalla zia Jo e da Moju Manuli

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Di notizie e bonifiche

Non mi andava di scrivere questo post, tra l’altro la notizia VERA (perchè l’hanno deciso i media, mica io) di oggi è che Berlusconi “lascia”: wow, la prima volta che ho manifestato contro di lui avevo 17 anni e sono finita immortalata da una tv locale, adesso ne ho ben 35.. Suppongo oltretutto che una volta eliminato il “problema Berlusconi” staremo tutti molto meglio. Come no.

La notizia NON VERA invece è questa

che ai più svegli potrà sembrare cosa normale, normalissima. In realtà visto l’alto numero di coloro che ti consigliano ti acquistare il prodotto locale ammiccando o di quelli che fanno gli sbruffoni coi turisti vantandosi di chissà quale genuinità tutta sarda direi che dalle mie parti c’è proprio tanta tanta gente che continua a raccontarsi bugie e ci crede pure.

Lo studio si chiama “Sentieri” ed è molto interessante perchè mette finalmente in diretta correlazione l’aumento delle malattie e i cosiddetti SIN o siti di bonifica di interesse nazionale. Riguarda l’intero suolo italiano e si può trovare qui: si tratta di quelle aree che hanno creato il famoso “indotto” ossia caratterizzate dalla presenza di industrie chimiche, siderurgiche, elettriche, miniere, cave, inceneritori, porti et similia e che tuttora  si distinguono per la mortalità in eccesso rispetto alla media.

Il numero che salta forse di più all’occhio è quel 3.508 ossia i morti in 8 anni riconducibili direttamente alle esposizioni industriali nelle varie parti d’Italia; per quanto riguarda la  mia isola direi che non ci sono dubbi, basta osservare la mappa:

La Sardegna è evidentemente la regione più avvelenata: 445 mila ettari. Le aree più colpite sono quelle del Sulcis-Iglesiente, del Guspinese e di Porto Torres: bisogna che qualcuno lo dica ai tanti, ai troppi sardi che guardano la tv scuotendo la testa per le immagini dell’immondizia napoletana mentre il vicino di casa muore di tumore.

Nel frattempo la protesta dei comitati anti-radar continua in varie forme così come continuano le piccole battaglie e follie quotidiane: questo fine settimana, ad esempio, saremo QUI a tentare di raccontare un’altra storia e a scrivere un finale diverso.

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Quello che non

La zia Jo indossa la maglietta del FemBlogCamp

All’incirca dopo la decima richiesta su “com’è stato il Feminist Blog Camp?” anch’io decido di fare il mio report. Anzi farò un non-report: non posso riassumere 3 giorni così belli e intensi in un piccolo post, soprattutto a livello emozionale non ci riesco e allora faccio prima a scrivere tutto quello che il Feminist Blog Camp non è stato.

Tanto per cominciare non si è verificata la cosa che si temeva maggiormente: la famosa frattura generazionale (paura eh?) “le vecchie di qua e le gggiovani di là”, questo proprio no. Mi è stato chiesto più e più volte qualche indicazione su questo tipo di argomento, per la serie: “ma in questo blog ci scrivono persone con più di 50 anni?” oppure “ma alla festa di sabato c’era gente della mia età?” e questo perché spesso e volentieri ci siamo abituate ad uno spettacolo a dir poco desolante e degradante del femminismo italiano, qualcosa che a ben vedere in rete non esiste, così come non è esistito al Camp.

Al FBC non c’è stata la stupida garetta al “io sò più femminista di te” come neanche quella al “io c’ho il blog più figo del tuo” detta anche la gara del “piscio più lontano”: davvero non ho assistito a nessuna scena di questo tipo (ma fortunatamente) così come non ho notato particolari invidie o tentativi di frasi le scarpe a vicenda smentendo per l’ennesima volta quel pregiudizio del cazzo per cui non sapremmo fare rete.

Il Camp non è stato asettico, non ci siamo messi i guanti di lattice per toccarci e non contaminarci. Ci siamo abbracciate con trasporto, ci siamo sbaciucchiate e ci siamo odorate di brutto. Abbiamo dormito insieme, fatto la pipì nello stesso bagno e mangiato le stesse cose. Abbiamo conosciuto di persona tanta gente con cui abbiamo scambiato impressioni per lunghi mesi solo virtualmente quindi è stata anche un esperienza volutamente tattile e sensibile, come in pieno recupero di un grosso vuoto, quello fisico e della presenza, che la rete ci costringe a vivere.

La mia opera

Il FBC non è stato separatista. Spiacente (ma anche no) per quante invece si auguravano un’esperienza di questo genere, non è andata affatto in questo senso: fondamentali quanto le donne sono stati tutti gli uomini che hanno attraversato questa 3 giorni, le voci e i percorsi dei disertori del patriarcato allo stesso modo e in egual misura delle esperienze e delle testimonianze femminili.

Il Camp non è stato perfetto, è stata la prima volta e va aggiustato il tiro di qua, e pure di là, anzi ora che ci penso pure da quell’altra parte ma piano piano miglioreremo: la cosa più importante è che si cerchi di costruire e non di distruggere. Ci sono tante troppe differenze che ci separano e che finora ci hanno tenuto un po’ a distanza, bisogna continuare a confrontarsi e continuare a credere che qualcosa possiamo cambiare, partendo da noi innanzitutto.

Poi ci sono altre cose che non vi posso dire, io ad esempio non ho visto Lorella Zanardo mettere la tovaglia all’Askatasuna come mia mamma e non sono stata un’ora in cucina con Sandrone Dazieri ad affettare le melanzane, non ho scorto gente sbaciucchiarsi negli angoli bui e scene di panico generale, non ho sorriso osservando persone diversissime incontrarsi  e stimarsi e non ho sentito scambi anche accesi di opinioni, non ho visto né pianti né abbracci, non ho visto praticamente niente.

Mi sa che la prossima volta vi toccherà partecipare per sapere qualcosa.

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