Stereotipi

Seguendo la scia del caso Travyon Martin, il periodo scorso, ovviamente sono andata a parare dall’altra parte della questione e ho cominciato ad imbattermi in strani quesiti che, da bianca, non mi ero mica mai posta. Tutti e tutte noi siamo abituati ai media italici che propagandano razzismo becero sul migrante, immigrato, clandestino: i romeni che stuprano le donne italiane, i neri spacciatori, gli albanesi ladri e così via. Ma quando non ci immigra nessuno? Quando non c’è pericolo di occupazione aliena? Insomma, quando non ci cagano proprio?

Quando la percezione della violenza dipende solo da stupidi stereotipi sul colore della pelle le cose cambiano?

Questo bellissimo tumblr mi ha aperto l’orizzonte sull’argomento, in particolare qui e qui dove si evidenzia che gli stereotipi sugli assassini bianchi sono diametralmente opposti a quelli di assassini di etnia o colore della pelle differente nel nostro immaginario. La differenza tra Hannibal Lecter, così colto, ricco e bianco e i popoli indigeni “selvaggi” che vediamo nei documentari praticare il cannibalismo è lampante, eppure in entrambe le situazioni, toh, si mangiano esseri umani. La stessa bianchissima simpatia che proviamo mentre seguiamo serie come Sopranos o Dexter dove l’attività criminale è addirittura il filo conduttore dei telefilm e il successo di queste serie è perfino premiato con riconoscimenti vari: ebbene, solo i bianchi possono permettersi il lusso di essere visti come persone e personalità complesse dalle mille sfaccettature, incluse quelle criminali, e accettare che si possa fare il tifo per loro.

Trovo che un punto di vista differente sull’argomento sia auspicabile sempre di più: la necessità di rovesciare questo tipo di stereotipi la sento strettamente necessaria, specialmente in tempi come questi dove il meccanismo di legittimazione dell’omicida bianco è talmente introiettato al punto da portare alla sua giustificazione (vedi casi di femminicidio nei media).

Il video che segue ad esempio è un ribaltamento degli stereotipi hollywoodiani sugli uomini africani, mi auguro che sia solo una fra le tante reazioni alla creazione di pericolosissimi preconcetti.

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Amina e Monia

Oh, finalmente!

Dopo giorni di ansia e di feroce aspettativa, dopo lunghe notti insonni a rigirarmi nel letto come una cotoletta, dopo albe e tramonti di speranza mentre mi chiedevo: “Ma quando ne parlerà? Ma perchè non ne scrive? Ma cosa sta aspettando a darci il suo indispensabile parere sulla questione?” finalmente, l’amor che move il sole e l’altre stelle, cioè Roberto Saviano, oggi su l’Espresso ci fornisce la sua opinione su Amina Tyler e le coraggiosissime donne della rivoluzione tunisina.

A questo punto, visto che anche Iddio ha detto la sua anch’io posso dire la mia.

Princess Hijab, Paris, street art

Princess Hijab, street art, Parigi

Ovviamente anche Roby riporta la notizia che è circolata in lungo e in largo nei media italiani con titoli altisonanti dal 4 luglio in poi, giorno del processo d’appello alla giovane tunisina: “Amina si è tolta il velo” cioè il sefsari, quel velo chiaro che le donne tunisine usavano mettere sopra il vestito per uscire e non cambiarsi d’abito, prima di entrare in tribunale.

E fin qui niente di strano, è un gran bel gesto di autodeterminazione.

Per il nostro santo poeta e navigatore invece significherebbe “sono libera”, in quanto il sefsari sarebbe, nell’immaginario savianico, il corrispettivo delle “sbarre”. Ma girando per il web troviamo addirittura titoli ben più interessanti che ci fanno apprendere la meraviglia di tale importantissima notizia: “Amina sfida i giudici”, “Il gesto coraggioso di Amina” e varie perle partorite dalle menti di eccelsi giornalisti.

Shadi Ghadirian, fotografa, Teheran

Shadi Ghadirian, fotografa, Teheran

Ora, senza nulla togliere a questo atto di Amina, è noto che in Tunisia l’obbligo di velo non esista, anzi questo capo d’abbigliamento femminile è stato più o meno esplicitamente proibito (decreto 108), con conseguenze disastrose che andavano dalla discriminazione negli studi e sul lavoro alla repressione poliziesca per chi si azzardava ad indossarlo. Tutto questo fino a qualche anno fa quando, all’approssimarsi della cacciata del pezzodimm di Ben Ali molte donne, soprattutto giovanissime, hanno cominciato a riappropriarsi di questo elemento della propria tradizione, cosa piuttosto difficile durante i 23 anni di dittatura, dove il velo poteva perfino essere strappato dalla testa delle donne mentre gli uomini potevano continuare a portare la barba tradizionale senza conseguenze.

Presentarsi davanti ai giudici con il sefsari è dunque una consuetudine, una remota prassi che ha resistito nel corso degli anni nonostante le innumerevoli persecuzioni alla religione islamica ad opera del pezzodimm di Ben Ali e precedentemente di Bourguiba.

Insomma, in un momento particolarmente importante e delicato per le donne tunisine nel tentativo di liberarsi da OGNI forma di oppressione una fetta di occidente le riconduce, come al solito, a ciò a cui si riconducono tutte le lotte delle donne: il corpo.

Sarah Maple, artista visuale, Londra

Dalla balaklava delle Pussy Riot alle tette delle Femen alla battaglia sul velo è tutto un coprire e scoprire questo corpo delle donne, mentre di tutto il resto, che è poco visibile, non c’è la minima traccia nei media mainstream. Saviano, com’era logico, s’attacca pure lui al tram della corporeità senza sorprese, anzi mi sarei stupita del contrario; mi sarei meravigliata di un articolo, che so, sul fatto che le donne nel SUO paese vengano dicriminate in qualunque campo, ad esempio sul lavoro, nonostante siano mediamente più studiose degli uomini, solo perchè esiste il vago sentore che un domani possano andare in maternità e quindi sono costrette a stare a casa sobbarcandosi aggratis tanto lavoro di cura non retribuito.

Ebbene, a questo punto tocca anche a me inseguire quest’onda anomala sul corpo, quello per eccellenza ossia quello delle donne, dato che di coprire o scoprire uomini, bambini, anziani, non si parla mai (sono ectoplasmi probabilmente, mah) e lo farò procedendo in senso inverso: se per Saviano togliersi il velo ossia scoprire il corpo è sinonimo di libertà mi toccherà citare chi ha coperto il proprio corpo per sentirsi libera.

Siamo sempre in tribunale e la donna è sempre tunisina ma questa volta siamo in Italia, anno 2005: Monia Mzoughi si presenta interamente coperta per assistere al processo del marito, le chiedono di togliersi il velo e di farsi riconoscere, lei obbedisce e mostra volto e documenti. Non basterà, verrà denunciata e subirà un processo, conclusosi tre anni dopo, in cui verrà assolta.

Sarah Maple, artista visuale, Londra

Sarah Maple, artista visuale, Londra

Nessuno allora gridò al gesto coraggioso, anche se ci volle indubbiamente molto coraggio (più o meno di Amina?) per sfidare non solo i giudici ma lo Stato italiano e le sue leggi, talmente tanto coraggio da affrontare il processo rischiando fino a due anni di reclusione e migliaia di euro di multa, per non parlare delle conseguenze mediatiche: “sono preoccupata per i miei bambini”, disse allora la donna, trattata dai media come una sorta di delinquente. Allora non ci furono femministe che plaudivano all’autodeterminazione di Monia né illustri opinionisti che citavano quel gesto come simbolo di lotta, non ci fu nulla di tutto questo né mai ci sarà, come è logico, fino a quando si continuerà a seguire la rotta dell’etnocentrismo spacciata come baluardo della libertà.

Del resto, non potrebbe essere altrimenti, nella melma dove scrittori e giornalisti impegnatissimi ed esaltatissimi che fanno perfino i tour per pubblicizzare i propri libri non trovano di meglio che parlare delle lotte delle donne associandole CASUALMENTE sempre al corpo: come contenitore di vita futura, dispensatore di bellezza, sessualmente appetibile, nudo come segno di emancipazione e chi più ne ha più ne metta.

Mai che si parlasse del loro corpo, ad esempio. Eppure, in molti casi ce ne sarebbe bisogno.

*Nel prossimo post: il corpo di Roberto Saviano, o meglio, la mano sinistra del Vate! Tutto quello che avreste voluto sapere sul famoso dito indice corredato d’anello, ormai diventato un vero e proprio oggetto di culto da venerare come una reliquia. Alla prossima!

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Forse voi non lo sapete

Forse voi non lo sapete ma esistono anarchici che vanno al mare.

Anzi no, mi correggo.

Forse voi non lo sapete ma esistono anarchici che HANNO LA CASA al mare.

Ebbene sì, e spesso sono proprio quelli e quelle che lavorano e producono e ingrassano lo Stato e tante belle amenità e poi sono i primi che ti fanno la testa a brodo con tanti bei discorsi contro questo e contro quello, stanno sempre in prima linea quando c’è da cianciare ma poi, quando c’è da fare qualcosa insieme, cazz, non ci sono mai. Non è incredibile?

Questo tipo di anarchici teme il lavoro fisico, la fatica e l’impegno come la peste bubbonica; se ne tengono costantemente alla larga preferendo tronfi paroloni e belle teorie con cui ti ci pulisci amabilmente il culo.

Per questo motivo e visto che tra anarchici il discorso di CLASSE è decisamente snobbato a favore di una miriade di altre cazzate senza capo né coda io mi schiero a favore dell’anarchico sfigato, sfruttato, sottopagato o disoccupato che quando le finanze e gli impegni glielo permettono si fa il culo a tarallo silenziosamente, in maniera spesso umile e defilata.

Ebbene, è a questa tipologia di persone che mi rivolgo con i miei soliti consigli dimmerda su come passare queste vacanze, vacanze per gli altri però, perchè mi sa che non tutti possono permettersele.

– Fare le cose che fate di solito tra voi collaborando come sempre, dal curare l’orto (collettivo oppure no) al progettare grossi lavori insieme, gettando basi per un futuro che sperate sia meno schifoso per voi e per i compagni e le compagne che condividono il vostro destino. Tutto è ben accetto, dalla noiosa riunione al guerrilla gardening, dal dipingere un muro all’aprire uno spazio sociale. Avrete alti e bassi furiosi e la disperazione sarà sempre dietro l’angolo ma l’importante sarà la maggior condivisione possibile delle vostre reciproche sfighe, perchè non c’è cosa peggiore di uno che ti ascolta, fa anche finta di capirti e poi vive la sua vita come il peggior borghese.

– Andare in vacanza come tutti gli altri vivendo di furti alle banche e di scippi alle vecchiette, sputtanandovi i soldi in stupidi baccanali, alcolizzandovi malamente e alienandovi le simpatie della società intera di cui non vi potrebbe fregare di meno. L’esperienza potrebbe essere esaltante inizialmente ma poi il rancore potrebbe tornare, acceso, vivo, bruciante, e potreste non essere in grado di controllarlo e dominarlo. Del resto, da un’esperienza di un nulla più totale non si può tornare indietro tanto facilmente, quindi pensateci bene prima di diventare degli squallidi nichilisti o di assomigliare a degli elettori del PDL, e alla fine fate un po’ come vi pare.

– Frequentare le periferie e le persone considerate borderline del posto in cui vivete e sentirvi molto a vostro agio. Sono ben accetti zingare, migranti, pazzi, prostituti, alcolizzate, stronzi, ladri, galeotti, drogate, povere, barboni, fallite, tutta quella gente considerata dimmerda che non produce il famoso benessere, spesso si ammazzerebbe per due lire e ha una visione della vita e del sistema molto più realistica di tanti vostri compagni e compagne, che guardacaso, si tengono alla larga pure da loro. Di solito da questo tipo di esperienze se ne esce arricchiti e con un sacco di amicizie durature da non presentare MAI ai genitori ma di cui invece potrete vantarvi con i vostri nipotini.

– Andare a casa dei vostri compagni benestanti quando non ci sono, sì avete capito bene, la famosa casa al mare, e decidere di fargli mancare il terreno sotto i piedi attentando ai loro beni. Una volta introdotti nella casa compiere azioni deplorevoli e/o dannose che non starò qui ad elencare, basta usare un po’ la fantasia, è ben accetta l’oscenità scritta sul muro come cagare nel centrotavola o sfasciargli l’intero ambaradan. Ovviamente compiere questo tipo di azioni è del tutto illegale e sarete perseguiti penalmente: sta a voi decidere se valga la pena rischiare il carcere per il gusto di trovarvi davanti il malcapitato o la malcapitata che vi racconteranno tristemente l’accaduto mentre voi gli riderete clamorosamente in faccia.

– Evitare questi compagni e/o compagne tanto borghesi, evitare di incontrarli, di parlarci, di farvi il fegato amaro nel sentire i loro vuoti discorsi non solo per il periodo estivo in cui andranno nella loro fottutissima casa al mare, ma per sempre. Eliminarli dalla vostra vita, avere il coraggio di dire NO e tirare avanti senza di loro.

Perchè forse voi non lo sapete, ma la vostra strada non è la loro e non lo sarà mai.

*Questo post è dedicato ad almeno tre persone. La canzone l’avevo già messa ma la rimetto. Forse voi non lo sapete ma sticazzi.

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Grasse risate

Scrivo quasi sotto effetto del gas esilarante: questa giornata è divertente, gli uccellini cinguettano, il sole splende ahahahah

Poi trovo notizie come questa e mi scompiscio dalle risate: abbiamo le calze antistupro ahah che divertimento, bastano un po’ di peli e i maniaci se la danno a gambe, che spasso eheh

Si vede che lo stupro è diventato una questione estetica adesso, ihih che mattacchioni!

Hai voglia tu ad essere terrorizzata da tuo padre che ti violenta tutte le notti, e tu col retto sfondato e due costole rotte, e tu con la milza perforata e che magari sei pure morta ahahahahahahah troppo divertente!!!

Ihihihih ma davvero esiste ancora gente che confonde l’attrazione sessuale con la violenza, il sesso con lo stupro, non ci si crede, incredibile.

A questa gente andrebbe detto: “ti posso accarezzare?” e poi sferrargli un cazzotto potente sul muso e poi ahahahahah che risate magari lo capisce. E nel caso non capisce una bella passata di calci in culo dicendo “ehi, è un apprezzamento eh”. Oppure un bel calcio nei coglioni ahahahahahahah, magari spacciato per una coccola.

Alla fine vedi come, dai e dai, la differenza comincia a palesarsi.

Ma io scherzo eh, si sa che sono una che si diverte con poco.

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L’attesa

Siamo tanti nella sala d’aspetto, talmente tanti che non ci stiamo più, molti attendono per strada ormai, in fila per il loro turno. I passanti ci osservano mentre stiamo ad aspettare ma non si uniscono a noi, tirano dritti mentre inseguono le loro vite.

Siamo davvero tanti. Solo dieci anni fa sarebbe stato impossibile anche immaginare di riempire questa sala, attraversata da qualche sparuto viandante che sognava, preso dal suo miraggio, una fine che non sarebbe mai arrivata: ora, la sala gremita, la fine dell’attesa sembra vicina, vicinissima, e nel frattempo si interagisce.

“Itte tenes tue?”Che cos’hai.

Chi dice un tumore, chi il marito morto, chi la terra avvelenata, chi la vita espropriata, rubata, fallita. E mentre si aspetta insieme, insieme si cresce e si trovano basi comuni.

Il NO vola veloce ormai, sulle cime delle sughere, sui fiori dell’asfodelo, sui muri delle case, si contagia e si propaga con il vento. Appeso a sogni inenarrabili, foriero di aspettative, il NO è il limite a cui si affaccia gente come me che sta qui invece in attesa di un prossimo passo, più propositivo, più realistico.

Seminando conflitti, temo come tutti gli altri il momento in cui si accorgeranno di noi, stupiti, meravigliati di tante presenze. Temo il momento in cui ci faranno del male.

Alcune volte pare che basterebbe un solo fiammifero ad incendiare la sala, altre volte ci rassegniamo con pazienza all’attesa e a me sembra di vederla là, la fine, alla svolta di quell’angolo, in fondo alle paure e alle speranze di tutte queste persone che riempiono questo spazio.

Quanti saremo? Non riesco più a contare, i numeri e i sogni volano come mosche nell’aria satura: aspettiamo ancora, e ancora. Siamo qui per questo.

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Di cyberstalking, Boldrini e Giovanni

C’era una volta il web due punto boh.

Sarà stato il 2009, la rete sembrava lo stesso far west di oggi ma più incerto, più avventuroso, meno definito: i socialnet erano in piena espansione e a parte qualche scafato delle mailing list, una grande massa di persone cominciava ad avere una vita sociale virtuale proprio in quel momento.

Le femministe in rete non erano tantissime (ora sono molte di più fortunatamente): alcune che avevano capito le potenzialità del web lo frequentavano da anni in maniera spericolata. C’erano le singole blogger, le pioniere di facebook, le mediattiviste.

Poi c’erano i fortini assediati (blog e siti), e assedio è la parola giusta: da quando una donna mediamente autodeterminata comincia a navigare e ad esprimersi in rete l’assedio è garantito, sicuro al 100%. Io che gestivo pagine facebook con altre ricevevo minacce di morte, sodomia, stupro, violenze varie ed eventuali, molestie sessuali, come nulla fosse. Era cosa risaputa, lo sapeva anche la più svampita tra di noi che esisteva il cyberstalking, che i sessisti si aggiravano come squali e segnalavano profili, persone, clonavano blog, siti di donne, era una grande ovvietà per noi femministe. I maschilisti erano (e sono tuttora) particolarmente violenti, si riunivano in branco e facevano strage di qualunque cosa riguardasse il femminismo: li si poteva trovare indifferentemente su Indymedia intenti a linkare articoli a favore della PAS o ad attaccare in massa le pagine antiviolenza di note deputate piddine (quella che “ommioddio mi hanno affossato la pagina, mandatemi materiale su questi cyberstalker, la cosa è grave, la porto in parlamento” e poi non ha mai alzato un dito, ma questa è un’altra storia)

Vagando nel web mi imbatto in Giovanni Pili e nel suo sito ed è subito amicizia: Giovanni è sufficientemente pazzoide da volerci dare subito una mano a diffondere notizie sulla misoginia nel web e a far conoscere questo fenomeno sconosciuto a buona parte delle persone digiune da discorsi di genere. Il risultato nel corso degli anni è una collaborazione tra me e lui: è del 2010 la pubblicazione di questo articolo di Ladyradio; da allora molti miei articoli sul femminismo si sono intrecciati ai suoi e di altri/e.

Una decina di giorni fa vengo a sapere che Laura Boldrini, la stessa che oggi tuona sulla misoginia nel web dalle colonne di RePubica (quel giornale online infarcito di donnine nude per intenderci), ha censurato un articolo di Giovanni, ha mandato poliziotti a casa di giornalisti, ha fatto partire denunce. La colpa del mio amico  Giovanni è di aver smascherato la bufala sull’immagine della finta Boldrini nuda, di aver preso le sue difese e di aver indicato i responsabili dell’ennesimo tentativo di danneggiare una donna. Questa censura ad opera di Boldrini è roba da analfabeti digitali, da guerra preventiva nei confronti di uno strumento che si disconosce e si preferisce ormai da troppo tempo continuare ad ignorare: internet.

Lo stesso strumento che in questo preciso istante, dopo le parole della presidente della camera, veleggia al centro delle stesse sterili polemiche di sempre, le polemiche degli idioti finti libertari che difendono questa grande meraviglia della rete, ossia la possibilità o meno di scrivere cazzate ovunque, di minacciare, compiere reati digitali in nome di una presunta “libbbertà del webbe” dove il massimo della libertà è utilizzare piattaforme ben servite da multinazionali e apporre il loro like su facebook o in altri sistemi già dati.

Ovviamente poco importa a questi paladini della rete che esistano fenomeni come lo squadrismo o il cyberstalking, non gliene potrebbe fregare di meno: “anch’io ho ricevuto minacce”, affermano quasi con baldanza facendo la figura di quelli che ad un convegno sulla fame nel mondo si lamentano per il paninetto che hanno mangiato a pranzo. E con questo ragionamento della censura che starebbe lì lì per arrivare spostano sempre il problema che guardacaso, ricasca sempre sulle vittime. Del resto, perchè sollevarlo il problema, chi se ne frega, possiamo farne tranquillamente a meno come abbiamo fatto finora: Boldrini si è sfogata, prima o poi faranno una legge che a noi povere mortali non servirà a nulla, la cultura e l’informazione continueranno ad essere sempre la stessa merda e andremo avanti così.

Non ci servono leggi, non ci serve la repressione. Non ci serve la stupida difesa a oltranza di uno strumento non libero, non ci serve la convinzione di salvare il mondo con un tweet o un click.

C’era un volta il web due punto boh e c’è ancora. Quello che manca è la testa per utilizzare questo strumento, la nostra testa.

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Quante favole

“Sai, a volte penso a D. e lo immagino come un principe azzurro, ma vero, ti giuro, seduto sul cavallo bianco, che scende da palazzo X e mi viene incontro”

“Stai scherzando, vero? Dai, dimmi che stai scherzando..”

“No, non scherzo”.

Ti guardo e penso a quanto lavaggio del cervello, pubblicità, favole, racconti, storie varie, ti si sono infilate nella mente e hanno creato tutto ciò, perchè tu di tua sponte sto cazzo di principe potevi crearlo marchese, o ciabattino, o infermiere e non solo azzurro ma pure rosso, fucsia, verde acquamarina, che ne so.

E’ un attimo e io già deliro. Continua a leggere

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Primavere

E’ con grande piacere che saluto il nuovo progetto delle stupende favolosità di Femminismo a Sud, compagne e compagni con cui ho avuto il piacere di condividere una parte del mio cammino, talvolta con la fatica e la difficoltà dovute alle differenze tra personalità ed esperienze, più spesso con gioia ed entusiasmo, desideri e maturazioni personali e collettive. Il blog si chiama Intersezioni, ed altrimenti non poteva essere, vista la bellezza delle differenze e delle comunanze tra percorsi diversi, uniti dall’intento di trasmettere e comunicare liberazione in un’ottica antisessista, antifascista, antirazzista e antispecista. Seguirò e linkerò per quanto potrò, in mezzo agli asfodeli in fiore, questo progetto a cui auguro tanta fortuna.

E ancora un video dagli amici di Sidealibera (presto nella grande famiglia Noblogs) frutto di riflessioni collettive sul documento Nato 2020 e sulle sue implicazioni nella nostra terra, la Sardegna, terra di militarizzazione da decenni che continua a subire effetti devastanti a causa della colonizzazione italiana, un video da seguire passo passo per conoscere i prossimi scenari ai quali stiamo andando incontro.

Infine segnalo la bella intervista di Laura Gargiulo per A rivista dal titolo “A sa sardA” al Collettivu S’Ata Areste, collettivo femminista e lesbico in centro Sardegna che parte da un progetto di emigrazione di ritorno e si sviluppa in maniera sostenibile in un’ottica anticolonialista e antisessista. A breve, anzi a brevissimo, ci sarà l’apertura dell’Arkivi@: “Stiamo raccogliendo testi politici, documenti, romanzi, saggi, opuscoli, riviste e fanzine, fumetti, film, manifesti, adesivi, cartoline etc. relativi a lesbismo e lesbofemminismo, anarcofemminismo, femminismo, movimenti lgbtiq, tematiche di genere, arte, ecologismo e antispecismo, anarchia e movimento anarchico, movimenti in Sardegna e a livello internazionale…
Ci appoggiamo in una casa ma cerchiamo una sede!
Chi volesse contribuire alla crescita di questa neonata Arkivi@ con donazioni di ogni genere può scriverci qua: mojumanuli@autoproduzioni.net

 E’ così che si rinasce, è così che si fiorisce.

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Io non sto con le Femen

Le ho conosciute le Femen italiane al secondo Feminist Blog Camp, non erano quelle famose alte magre magre molto bianche bionde tipo Inna Schevchenko, che trovi in ogni dove sui quotidiani più pruriginosi (tipo RePubica e Le Ore), erano proprio ragazze italiane: simpatiche, intraprendenti, con le idee chiarissime su ciò che vogliono ottenere e su come.

Le ho tempestate di domande e mi hanno riposto belle precise e dirette come piacciono a me, perfino sulla loro contrarietà alla prostituzione volontaria. Però io non sto con le Femen, e mi spiace un po’ dirlo perchè mi sembra retorico ma forse era anche ora che lo dicessi che le loro azioni non le condivido proprio per niente.

Per oggi le Femen hanno organizzato la “Topless Jihad” per la “liberazione” di Amina (una Femen tunisina di cui non si hanno notizie confortanti per il momento) in varie città e non si capisce perchè l’azione più clamorosa si sia tenuta a Parigi davanti ad una moderatissima moschea, che proprio un covo di cattivi salafiti non è, oltretutto in Francia che non mi risulta essere la Tunisia, ma forse gli si sarà spirato il passaporto sennò potevano prendere anche la nave, ricordo che un tempo c’era il traghetto Tirrenia che partiva una volta a settimana da Cagliari, ma volendo potevano prendere pure la SNCM che i corsi, per dirla alla Julio Iglesias, sono un po’ pirati un po’ signori..

Ma sto divagando.

Una pericolosissima Femen

Tra i mille gossip che circondano le loro azioni arriva perfino la voce che alcune attiviste francesi abbiano abbandonato Femen durante questa “topless jihad”: purtroppo ormai non si sa più se credere o no a ciò che accompagna questa organizzazione, l’unica cosa reale sono le immagini di poliziotti che si accaniscono su ragazze seminude e indifese, spesso trascinate con la forza: uomini coraggiosissimi che compiono sforzi sovrumani per allontanare queste esili donne armate di tette nude pericolosissime, come ben insegna la mitica Afrodite A.

Trovo curioso anche che le Femen non siano andate a manifestare pro Amina durante il Forum Sociale Mondiale che si è chiuso solo 4 giorni fa proprio a Tunisi: lì avrebbero trovato le compagne anarcofemministe di Feminism Attack e molte altre femministe tunisine. C’erano perfino le donne che rivendicano il niqab come strumento antioppressivo e anticoloniale, magari ci si poteva, perchè no, parlare, ma si sa che io ho idee stranissime su come debbano andare le cose tra esseri umani.

Tra le tante anime che agitano la Tunisia in questa grande transizione nessun movimento di supporto è nato per il caso di Amina, un caso tutto occidentale che trova il suo apice nella marea islamofoba che ormai monta in tutta Europa e trova terreno fertile in tante donne bianche che non lottano più per se stesse ma per liberare bovera donna afrigana obbressa.

In questi giorni ormai lo smarcarsi prende il largo, mi imbatto perfino in una pagina facebook dal titolo esplicativo: “La Femme Tunisienne n’est ni Femen ni Meherzia” dove per Femen si intende Femen e per Meherzia si intende proprio Meherzia Labidi del partito Ennahda: invece delle immagini di Amina che occhieggiano ovunque dai nostri informatissimi media troviamo le foto dell’immarcescibile Nawal al Sa’dawi, vera fonte di ispirazione e grande punto di riferimento per tantissime femministe arabe.

Sui siti italici invece è tutto un montare di notizie assurde e fugaci tra blogger che ci danno notizia dell’instaurazione della shari’a (così, da un giorno all’altro) e giornalisti che si inventano lapidazioni pubbliche di donne con il seno scoperto: tutto ciò farebbe anche molto ridere se non fosse che fino a poco tempo fa questa gente stava tutta affacciata a osservare la famosa “primavera araba”. I technocuriosi che erano impegnati a discettare di politica su Nawaat de Tunisie e a fare tanto i fighi su come il “dégage” poteva finire ora non sanno più nulla, che sarà successo bho, questi tunisini sono spacciati, per fortuna ci sono le Femen che fanno finalmente luce sulla condizione delle donne tunisine e forse forse riusciranno pure a toglierglielo questo velo, magari strappandoglielo anche di dosso, chissenefrega.

Io non sto con le Femen, non riesco proprio a starci, preferisco mille volte stare con le donne che desiderano autodeterminare la propria lotta senza interventi neocolonialisti di donne islamofobe che ormai si trovano un po’ ovunque, sono come la zizzania, tutte molto impegnate a fare guerra a sorelle che per un malcelato razzismo sarebbero più oppresse di loro e che proprio non ne vogliono sapere di essere liberate. Fortunatamente.

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L’otto tutto l’anno

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