Terra cun lande

Sa Filonzana (maschera)

Tzia Franziska è una bellissima donna, vestita ass’antica di nero lucente con un grembiule che pare cangiante al sole. Due orecchini d’oro le ornano il viso abbronzato e gli occhi furbissimi e due trecce di capelli bianchi ai lati si congiungono sulla nuca. Piccola che sembra una jana, tzia Franziska è svelta come una donnola e sembra quasi che il suo viso possa far dimenticare i suoi 73 anni vissuti all’interno di quell’oscuro sudario.

La puoi scorgere da lontano mentre passeggia per le bancarelle, un puntino nero di tradizione in mezzo a tutti quei turisti colorati in costume da bagno, occhiali da sole e parei da 3 euro, impossibile non notare il suo passo svelto e la malizia nello sguardo. Sembra uscita da un libro di favole, tzia Franziska, e ti si rivolge in italiano perfetto o in sardo perfetto, ma sempre minuta, graziosa e composta.

Tzia Franziska è una delle poche persone in questa fetta di mondo a saper fare il pane di ghiande, un pane che solo a sentirne parlare ti vengono i conati di vomito. Eppure, in mezzo a tutte queste rocce dove il grano non cresce e dove la terra è stata così avara con gli umani ma generosa di alberi di querce, lecci e olivastri grandi come palazzi di 3 piani, la gente ha imparato a preparare un cibo con le amarissime ghiande.

Depositaria di una sapienza antichissima ma rivolta ai nuovi mercati del turismo come panacea di tutti i mali, tzia Franziska ha imparato presto la scaltrezza del commercio e l’arte di saper spennare i turisti con qualunque pretesto: ora riesce a vendere perfino tramite la sua esperienza spacciata come unica al mondo.

I passanti estivi di questo lembo di terra, istupiditi dall’acqua di mare e dai profumi delle piante selvatiche restano abbagliati dal sole e docilmente si lasciano fregare. E tutto toccano, tutto assaporano e comprano e comprano.

Ignari di mangiare farina velenosa e terra, perchè il pane di ghiande altro non è che la lavorazione di qualcosa di non commestibile per l’essere umano mescolato con la cenere e l’argilla, inebetiti e con la bocca aperta alle zanzare nel caldo che avanza si sentono quasi degli eroi nell’essere riusciti a scoprire un po’ di isola nascosta da raccontare ad amici e conoscenti nel loro ritorno a casa.

Quegli antropologi che raccontano di povertà estrema, di geofagia e di gente in miseria costretta a mangiare terra cun lande perché non avevano altro di cui nutrirsi sono lontani mille miglia da qui e da questa donna dagli occhi lucenti che sa svendere pezzi di storia crudele con magnificenza.

Così va a pezzi quest’isola mia tra le coste sommerse di cemento preda di gente senza scrupoli e i primi a depredare le tradizioni e la cultura sono proprio coloro che maggiormente dovrebbero conservare e donare gratuitamente la loro conoscenza a chi verrà dopo di loro.

Ma tzia Franziska ha fretta, troppa fretta per pensare a queste sottigliezze e come il più abile dei mercanti deve vendere finché gli istranzos (gli stranieri) passano di qua; con il suo fascino deve riuscire a piazzare questo o quel prodotto e la sua fama e la sua sapienza  sono solo la scusa per smerciare tutt’altro.

I suoi orecchini d’oro dondolano mentre ti dice di sì e ti lusinga e tu sai che dirà di sì alla persona che la pensa in maniera diametralmente opposta alla tua con le stesse lusinghe e la stessa doppiezza d’intenti.

Ed è una specie di guerra a chi frega di più in questa terra immobile, e in questo silenzio degli alberi e del granito, indifferente all’isola ricoperta di pezzi di carta chiamati soldi.

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