Oggi la zia Jo è andata in città: una così bella giornata di sole non poteva essere sprecata.
Fare un giro sconclusionato tra la folla prenatalizia porta in sé qualcosa di edificante, più di una visita al manicomio criminale: in queste mattinate deliranti girano un sacco di loschi figuri tra i quali si possono distinguere i viveurs lampadati seduti ai tavolini del bar e i cafoni che sgommano con i SUV.
Le vetrine addobbate per il Natale incipiente, i jingle bells ad ogni angolo di strada, gli sfigati sottopagati da negozi in franchising vestiti da Babbo Natale che chissà per quale motivo offrono caramelle a tutti tranne che a me. E questo è un vero peccato sia perché a me piacciono le caramelle sia perché adoro accettarle dagli sconosciuti.
Forse è per via del mio viso imbronciato e dello sguardo che tradisce un enorme scoglionamento nell’assistere a questo assurdo circo.
Come tutte le brave signore anch’io mi fermo davanti ad un negozio di scarpe, un po’ per rispettare lo stereotipo “donna=scarpa” e un po’ per osservare i prezzi: siamo sui 180 euro per un paio di tronchetti. Più in là pigiami, vestaglie e intimo vario che, a parte qualcuno di quei cafoni di cui sopra, nessuno si potrà permettere.
Faccio un giro e ovunque prezzi da capogiro. La crisi morde e nessuno compra niente, si limitano tutti a passeggiare irrequieti perché vorrebbero comprare, è d’uso fare regali per le feste, anzi più che una tradizione osservando le facce direi che deve averlo ordinato il medico come cura salvavita.
Io sono fuori dal giro di queste stronzate da troppo tempo: probabilmente l’ultimo regalo che ho fatto per le feste natalizie risale agli anni ’90, ad occhio e croce anche prima che Kurt Cobain si sparasse. Ogni tanto mi fermo a contemplare un mondo che non mi appartiene e che tutto sommato mi annoia e mi lascia indifferente, preso com’è dalla sua stupida smania consumistica.
Quelle vetrine e quei prezzi però mi perseguitano e scavano dentro, non mi lasciano in pace, mi sembra che gridino vendetta di fronte a tutto ciò che vedo e che sento ogni giorno, nel frattempo mi sorprendo a chiedermi con che coraggio un qualunque negoziante si metta a compilare quegli astronomici cartellini.
Ovunque la generazione P, che è la mia, sfruttata nelle boutiques alla moda con il miraggio del miserevole stipendio a fine mese, oppressa nei turni massacranti dei supermercati, piegata e asservita in part time e full time per quella ricompensa da poche lire con cui alla fine ci si potrebbe comprare al massimo due paia di scarpe di quelle che ho appena visto.
Incontro qualche conoscente che si informa sul mio stato di isolamento coatto volontario e nel frattempo ne approfitta per raccontarmi le sue sventure, dapprima quasi con vergogna, in punta di labbra e sottovoce, poi mano a mano con vigore e passione: sfighe e speranze che finiscono con le pulizie domenicali in una concessionaria, assieme alla mamma, per portare un po’ di spicci in più a casa e riuscire a finire l’università con zero speranze per il futuro.
E allora me ne vado un più in là , cammino in cerca del sole, verso quello spazio dove non ci sono palazzi ad oscurare il cielo, mi siedo sul monumento di non so quale eroe morto, infestato dalle cacche di cane sulle aiuole a godermi queste belle esalazioni di monossido di carbonio e questa meravigliosa luce del solstizio sulla faccia. Mi compiaccio dello spettacolo di questa furia e di questa finta pace che sento galleggiare sospese nell’aria, la pianto con i miei soliti toni di lotta e faccio mentalmente a tutti auguri di buone feste.
Tanto per cominciare, auguri a quelli che sono tutt’altro che pezzenti, perché loro sono gli unici che possono permettersi di festeggiare adeguatamente e sfondarsi lo stomaco innaffiandosi a vicenda con lo champagne, sperando che si ricordino di lasciare qualche briciola agli altri in beneficenza, che il torrone gli vada di traverso e che il fenomeno dell’autocombustione smetta di essere un avvenimento raro specie quando indossano una pelliccia e si ricoprono con centinaia di animali morti.
Auguri ai poveracci, tanti, troppi, dai disoccupati/e ai cassintegrati/e, che pensano sempre e solo alle bollette da pagare, a come “arrivare alla fine del mese” e ad Equitalia che gli sta alle costole.
Auguri agli amici ed ai nemici, nella speranza che nei prossimi dieci anni il mondo si capovolga e le famose “sicurezze” di tutti siano andate a farsi friggere.
Auguri a coloro che sperano in un’eventuale caduta dell’attuale governo convinti che quello successivo sarà sicuramente migliore ed illudendosi di avere enormemente progredito nel cammino della civiltà e tante altre stronzate.
Auguri ai radical chic, a chi veste di velluto d’inverno e di lino d’estate, si può permettere di fare il cinico per le cose serie e l’entusiasta per le cazzate, sperando che si estinguano in massa tra finti consumi sostenibili e aperitivi del sabato sera.
Auguri agli inguaribili ottimisti, come mia madre più che settantenne, che dalla sua pensione minima ogni mese stringe e taglia un po’ di qua e un po’ di là per racimolare qualche decina d’euro da spedire a due ragazzini africani e garantirgli un’istruzione adeguata, convinta in assoluta buona fede di riuscire in parte a tamponare quell’enorme abisso che ci sta inghiottendo in massa.
Auguri a chi mette figli al mondo di questi tempi perchè ne ha veramente bisogno, come in tutti gli altri tempi del resto.
Auguri ai migranti e alle migranti che compiono lunghi viaggi a rischio della vita per approdare in queste terre d’Occidente ed essere umiliati e sfruttati, rinchiusi in lager di Stato, maltrattati e condannati ad un’esistenza al limite dell’umano.
Auguri a tutte le donne che hanno intrapreso un cammino di liberazione e di emancipazione dalle regole imposte e non scritte, da abitudini consumate, da vessazioni quotidiane, da violenze fisiche e morali. A quelle che sanno fare rete, che vivono appieno la solidarietà ed oggi come ieri lottano contro il bavaglio e le catene che ci vorrebbero imporre.
Auguri a chi gli auguri non li vuole, se ne sbatte delle feste comandate, non fa l’albero, non ha un dio da far nascere ed è una befana tutto l’anno, non ha nulla da perdere né qualcosa da vincere.
E infine auguri a me, che invece di buttarmi nella mischia senza capo né coda ogni tanto mi fermo a riflettere, a guardarmi dentro, ad interrogarmi su cosa potrei portare di nuovo e di bello in questi nuovi movimenti che nascono dal basso.
Sempre che non decida anch’io di mettermi a sfasciare mercedes e bruciare camionette della polizia, un po’ per il gusto di vedere degli oggetti andare in malora, un po’ perché questa rabbia che mi porto dentro non solo riesco a guardarla bene in faccia ma ho ancora la decenza e l’umiltà di riconoscerla come mia.
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