La zia Jo non è una fottuta nostalgica e questo post non è un rimpianto dei tempi che furono, neanche il solito “noi che” con gli sproloqui sugli anni ’80 che mi facevano cagare già negli anni ’80, commodore 64 e maniche a sbuffo incluse.
Tra l’altro la mia infanzia è stata parecchio differente rispetto a quella di chi è nato e cresciuto in città; i miei primi passi, e anche i secondi, li ho mossi in un paesino della Sardegna dove la natura la faceva per lo più da padrona, ma non mi dilungherei neanche su questo né sulle volte che si andava a rubare uva o ciliegie o a pescare i girini alla fontana non ricordo per quale assurdo e recondito scopo.
E’ solo un rendermi conto che il mio universo fantastico di bambina coincideva con l’universo magico-religioso dell’antico popolo degli Shardana che da millenni arrivava dritto dritto fino a me e mi veniva restituito nelle sue immagini coniate tutte al femminile che popolavano i miei sogni e scandivano le mie giornate.
Mi acquattavo nel muschio davanti alle domus de janas aspettando riuscire a vedere prima o poi proprio le janas, le minuscole fatine tessitrici e dispettose che abitavano le tombe neolitiche, quando mi capitava di passare da quelle parti.
Ero terrorizzata dalla sùrbile, la strega che succhiava il latte e faceva morire i neonati, forse antica reminescenza della ribelle Lilith, per non parlare di tutta la serie di “Maria + qualcosa” che erano le figure demoniache addette alla vendetta per qualcosa che non avrei proprio dovuto fare, il cui nome “Maria” è chiaramente un prestito cristiano alle favole pagane.
Maria Pettenedda in particolare mi faceva cagare sotto, ma quella che temevo di più era “Maria ‘e su sole” invocata da mia madre nei pomeriggi estivi quando gli adulti vorrebbero farsi una santa pennica e i bambini vorrebbero uscire a giocare alle 2-3 del pomeriggio mentre le cavallette e le cicale stridono in cerca dell’ombra e anche le lucertole sui muretti a secco si beccano l’insolazione: anche ora a pensarci mi viene in mente la mia personale raffigurazione della demonessa che viene a incenerirmi coi capelli in fiamme e gli occhi di brace.
Le mie nonne facevano da contraltare e da punto fermo alle immagini tutte al femminile di cui mi nutrivo: due gigantesse salde come macigni di granito, esempi di dignità e di fermezza d’animo ma anche simbolo di quelle antiche donne che non si sarebbero mai piegate davanti ai desideri machisti di nessuno né davanti ad una concezione patriarcale su presunti onori da vendicare o faide da perpetrare all’infinito.
Non avevo idea a quei tempi che il matriarcato in Barbagia cominciava a frantumarsi e che donne di quella tempra e di quell’età erano ormai le ultime depositarie di una cultura sacra e millenaria che partiva dal popolo nuragico e finiva con le accabbadoras e il loro potere sulla vita e sulla morte; non sapevo che tutto quel mondo che a me sembrava enormemente letargico si trovava in realtà alla fase terminale, totalmente impotente di fronte all’establishment dell’apparenza e del velinismo che si sarebbe abbattuto di lì a poco, riversato in abbondanza attraverso gli schermi televisivi dal colonizzatore Stato italiano.
E neanche la mia gente si accorgeva di nulla, il mio popolo che nella sua normalità andava tranquillamente avanti indifferente e talvolta fiero della sua diversità culturale, del suo matriarcato così peculiare e spesso anche dispotico e accentratore: il femmineo era ovunque, nella natura stessa, potente, selvaggia e immensa, che spezza, leviga e spiana col mutare del tempo ogni resistenza, nell’antichità di questa vecchia tartaruga che è la mia isola, nelle pietre che sussurrano a chiunque la voce della dea madre e nelle tante testimonianze del culto dei suoi pozzi sacri colmi d’acqua, l’origine della vita.
Poi qualcosa è andato storto.
Non so bene quando sia accaduto di preciso tutto questo sfacelo ma ora faccio una grande fatica a riconoscere la mia gente: le veline sarde, le vallette sarde, George Clooney al casu marzu, qua è tutta una corsa ai concorsi di bellezza. E poi Marco Carta e Valerio Scanu che vincono Sanremo e pullman organizzati colmi di madri e ragazzine urlanti che partono dai paesini col pranzo al sacco per andare a vederli in concerto.
Nel frattempo tutte le donne vengono fatte fuori dalla giunta regionale e a nessuno viene in mente di attrezzare manco un’ Ape Cross e andare a protestare. “Passerà”, pensano, aspettando la caduta di Berlusconi e del leccapiedi Cappellacci, come se fosse la fine dei mali della nostra isola.
La cultura matriarcale del centro-Sardegna è implosa, totalmente impreparata al sessismo di importazione, perfino l’identitarismo sardo ha assunto forme machiste, svenduto dal folklore stereotipato e dai coglionazzi che sentono dentro di sé tanto “orgoglio sardo” cantando l’inno della Brigata Sassari come se fosse una grande impresa salvo poi morire di leucemia al poligono di Quirra “pro s’onore de S’Italia e de Saldigna”, sproloquiando sugli “stranieri invasori” come dei bravi leghisti, totalmente incapaci di comprendere che un aquilano, un abitante di Terzigno o della Val di Susa contrario alla Tav è qualcuno con cui solidarizzare, non a cui fare la guerra, visto il piccolo, trascurabile problemino comune: lo Stato italiano.
Mi chiedo quando il mio popolo alzerà la testa e comincerà a riprendersi TUTTO quello che sta perdendo volontariamente, tutto ciò che sta buttando di sua sponte nel cesso in cambio di un appecoronamento servile e di un enorme lavaggio del cervello.
Mi chiedo quando spegnerà la televisione, come gesto di totale rifiuto nei confronti di una cultura malata che non ci appartiene, girando le spalle a chi vuole farci impazzire in questa continua smania di apparire più sardi e più esotici di ciò che siamo, tra un “ajòòò” e una spiaggia da cartolina.
Mi chiedo quando le donne sarde reagiranno con vigore ai soprusi che stanno subendo, dimentiche di essere le dirette discendenti della regina Eleonora d’Arborea, la cui Costituzione è stata d’esempio per l’Europa intera e osservata con rispetto per 500 anni, simbolo dell’unità della nostra isola. Il futuro è nelle vostre mani e in quelle dei figli e delle figlie che metterete al mondo, negli insegnamenti che voi gli darete, questo ci hanno insegnato le nostre antenate.
Perchè un popolo che rigetta o svende la propria cultura di sua volontà è destinato alla morte e alla colonizzazione. Per sempre.
Iskidadebos, feminas sardas!
Grazie. Benvenuta, Sud!
miiiiiiiiiiiiiii che bello!!!!!
Un abbraccio anche a voi, benvenuti su questo mio blogghino.
ciao Jo, non sapevo di questo tuo blog.
un abbraccio,
Jones
Così me piaci. Sarda.
..e c’é anche la ‘grande tartaruga’… grazie zia Jo.. mi iniziava a mancare il tuo ‘consiglio’.. 🙂
Grazie davvero a tutt’e due. Ricambio l’abbraccio 🙂
bellissimo post!
La regina Eleonora… la sua storia me l’hai raccontata tu per la prima volta. Un abbraccio gigante, Jo. :=)